Nell’acquario di Montecitorio

La Camera dei deputati, allo spettatore del teatrino presente dal vivo nei saloni, è apparsa come un enorme acquario, tipo quelli di Montecarlo dove si accompagnano i bambini per una giornata all’insegna del mare e dei suoi abitanti: i pesci. E come una preziosa razza protetta di specialissimi pesci, in una vasca speciale sotto una campana di vetro necessaria all’autoconservazione, sembravano i mille grandi elettori del nuovo presidente. Ma prima, anzi, fino a quel momento e probabilmente anche durante e dopo quel voto, i “pesci-parlamentari” avevano consumato un altro rito nuotando in un mare luccicante di fatue promesse, proprio come quell’etere televisivo in cui sono andati a zonzo, dalla sera alla mattina. Eppure, se c’è una cosa che i frugoletti della televisione, i talk-show, ci hanno definitivamente spiegato è che questa elezione per il Colle sarà l’ultima.

Intendiamoci: l’ultima realizzata secondo questa liturgia parlamentare che era già desueta venti o trenta anni fa, ma che con l’avvento e l’occupazione militare del video da parte dei talk, ha mostrato tutta la sua decrepitezza. Lo stucchevole gioco a vuoto in onda da mesi per misurare il bilancino del borsino quirinalizio, ha decretato il falò delle vanità presenzialiste e, al tempo stesso, la totale inutilità, tramutata in pericolosità, dell’elezione del presidente da parte dei mille pesciolini (peones) e pescioloni (capibastone) nell’acquario di Montecitorio.

Fatto ancora più curioso ma estremamente indicatore dell’imminente funerale di questa elezione, è la probabile ascesa al Colle di Sergio Mattarella, personaggio non secondario della Prima Repubblica, non comunista, democristiano doc, più volte ministro, giudice costituzionale, ecc. Il curriculum parla da sé, ma narra anche di un’estenuazione di un sistema che era passato dalla prima alla Seconda Repubblica sia a causa dell’annientamento giudiziario dei leader e dei partiti, sia in virtù del leggendario “Mattarellum”, nomen omen, che assestò il colpo finale. E che l’artefice del maggioritario all’italiana - che permise la vittoria al Cavaliere segnando in tal modo il ventennio successivo - sia oggi designato a garantire la Terza Repubblica essendo la seconda in pieno disfacimento, la dice lunga sulla fatalità dei corsi e ricorsi vichiani ma parla, anche e soprattutto, dell’implicita necessità di un traghettamento della stessa: nella quarta Repubblica. Dove, finalmente, l’elezione del presidente degli italiani avverrà per opera e voto degli stessi.

C’è dunque un duplice segnale, dalle evidenti contraddizioni, una sorta di ossimoro politico nella figura stessa del probabile presidente Mattarella, richiamato da Matteo Renzi in servizio permanente effettivo non tanto o non solo per tenere insieme un nervoso Pd mettendo a rischio il Nazareno - ma fino a che punto è tutto da vedere - ma l’identità e l’unione del Paese, sullo sfondo di una gravissima crisi identitaria della politica deprivata dei partiti.

Di questa identità smarrita e spappolata ci narra questa elezione, di candidature, dentro e fuori la politica, da Giancarlo Magalli a Vittorio Feltri a Ferdinando Imposimato, di partiti ora personalistici, ora evanescenti, ora inutili, con un fortissimo gestore dell’esecutivo alla cui intelligenza faremmo un torto se non avvertisse, fra gli applausi e i dissensi della sua scelta, lo scricchiolio dell’intera architettura istituzionale.

E vedere uno schieramento di centrodestra frammentato a tal punto da non capire la necessità di porre ai mille nell’acquario di Montecitorio, una sua candidatura libera, liberale e unificante come quella di Antonio Martino, è anch’esso un segnale di una deriva che può condurre a ulteriori esondazioni. E già i talk-show sono pronti a questa evenienza sperando in un’audience che non c’è più, indifferenti, come i suoi frequentatori politici, della grande tempesta, quella vera, che s’annuncia. A meno che...

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:34