Polizia penitenziaria e social network

mercoledì 25 febbraio 2015


Formare la polizia penitenziaria all’uso dei social network? Ma che vuol dire? E a che serve? Se uno vuole usarli per insultare la gente sarà un corso di formazione a fargli cambiare idea?

Alcuni agenti di un sindacato minoritario della polizia penitenziaria, come è noto, nei giorni scorsi hanno provocato un grande scandalo. Detto questo, nessuno ha colto la paradossalità delle parole riportate dalle agenzie del 18 e del 19 febbraio quando il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, si precipitò a dire in una conferenza stampa congiunta con il nuovo capo del Dap, Santi Consolo, che lui avrebbe promosso corsi di formazione per agenti di custodia all’uso dei social network.

Condendo questo concentrato di aria fritta con queste testuali parole: “Tra le iniziative del Dap ce n'è una che prevede questo tipo di formazione; non si tratta di limitare la libertà di espressione, ma gli agenti devono essere consapevoli delle insidie che si nascondono nell'uso di questi mezzi, anche se questi fatti non sono in alcun modo derubricabili a disattenzione”. Già, non sono “derubricabili”. Ma l’eufemizzazione del suddetto comportamento scellerato sta nella dichiarata volontà buonista del ministro. Anche le armi si possono usare per legittima difesa: o per sport al poligono o, al contrario, per fare una rapina.

Detto ciò, se un agente penitenziario in un raptus di follia e disperazione uccide con la pistola di ordinanza la moglie e si suicida, oppure si unisce ad una banda di criminali che rapinano le banche a mano armata, un ministro che fa? Promuove un corso di formazione per l’uso corretto delle armi leggere? Ma “ci facci il piacere”, come avrebbe detto Totò.

Purtroppo queste assurdità lessicali e logiche accadono quando i politici (e soprattutto chi ha anche responsabilità di governo) fanno fatica a chiamare le cose e gli eventi con il loro nome. Il gesto di chi ha commentato su Facebook in quella maniera il suicidio del detenuto romeno non va esorcizzato con un corso professionale di rieducazione all’uso di Facebook, Twitter o Google plus. Ma semplicemente sanzionando pesantemente il responsabile o i responsabili. E se il comportamento asociale e bullista dovesse dilagare, la soluzione diventa ancora più semplice: si proibisce l’uso dei social network durante l’orario di lavoro. Punto.

 

@buffadimitri


di Dimitri Buffa