Se solamente ci fosse... Luce!

Il landscape romano è ormai tutto un fuoco d’artificio e di artiglieria. Notizia si accumula su notizia, sparo segue a sparo senza soluzione di continuità. L’impressione è che Roma imploda su se stessa. Hanno distrutto la Barcaccia. L’Eur, la più bella architettura moderna dell’Urbe, si dibatte tra il fallimento e la reductio a quartiere a luci rosse. Dopo la chiusura per sciopero dei Musei Capitolini, quelli dell’Eur vengono commissariati dal ministero per evitarne chiusura o vendita.

Ci sono però 100 milioni di euro da dare per l’incompiuta Nuvola. Le compagnie teatrali senza Valle ed Eliseo finiscono al Palladio, in mezzo all’oasi di occupazioni abusive della Garbatella. Su tutto ciò arriva l’amara notizia della liquidazione delle attività di post-produzione cinematografica di Cinecittà, dal 2009 via via distribuite in nuove società destinate all’agonia. Non ci sono più i soldi per gli ammortizzatori sociali e le società coinvolte, Cinecittà studios e Deluxe si defilano. Il marchio Cinecittà, evocatore degli storici studi romani di via Tuscolana e della storia del cinema italiano, è divenuto un ombrello buono per nascondercisi sotto, vendere biglietti del luna park intitolato a suo nome o inaugurare, immemori di tutto, sempre nuove mostre commemorative. Fatto è che quel che si vuole chiudere in una bara celebrativa è ben vivo.

Nel ginepraio di Cinecittà c’è l’affidamento negli anni Novanta dei 22 ettari degli studi alla Cinecittà Studios di Luigi Abete, che poi accumula 8 milioni di affitti non pagati allo Stato. C’è la cessione della sede Luce al VII Municipio del Comune di Roma, le cui strutture finiscono dismesse o occupate. C’è la liquidazione di Cinecittà Luce Spa e la nascita dell’Istituto Luce Cinecittà, di totale proprietà del ministero dell’Economia e di gestione del MiBact. L’archivio Luce, uno dei più grandi al mondo, dal 2014 parte ‘Memory of the World’dell’Unesco, non sa se stare o meno in YouTube. C‘è il calvario della post-produzione digitale, nel 2009 divenuta Cinecittà Digital Factory (dismessa nel 2014), infine divisa nel 2012 tra Deluxe Holding, Deluxe Digital Rome e Panalight fino all’epilogo di oggi.

C’è nel 2012 l’occupazione degli studios da parte di lavoratori e dintorni. Gran viavai di prepensionamenti, ammortizzatori sociali, processi e di lavoratori, dal pubblico al privato e viceversa con fermata al Valle occupato. C’è infine la Rai che scopre l’amianto all’ex Dear nel quartiere Nomentano, dopo aver finito di pagarla per 50 milioni (come a via Teulada, al Teatro delle Vittorie, a viale Mazzini) e immagina di spostare a giugno 650 dipendenti per 7 anni a Cinecittà. La Rai che ha creato la sua sezione Cultura, fondendoci l’educational ed il web, con tanta enfasi da farla sparire. Ora è una corsa contro il tempo in attesa della partenrship tra tv pubblica ed ex cinema pubblico. Fioccano appelli per riportare allo Stato la gestione di Cinecittà. Se lo Stato doveva liberarsi da un peso economico, l’obiettivo è stato completamente mancato tanto che nel 2012 la Corte dei Conti evidenziò una perdita di 50 milioni di euro secchi. La sinergia tra i tanti pezzi pubblici resta un’incognita. Una grande università del cinema come il Centro sperimentale dovrebbe essere un profit di successo. TuLuce potrebbe far concorrenza a YouTube.

Invece a Cinecittà, divenuta famosa per l’esosità dell’affitto degli studios, vige il gioco al massacro. I guadagni di Abete, Della Valle, Benigni, De Laurentiis, Estate romana ed i curatori di mille mostre, in qualche modo sono sempre a carico dell’Erario. O si fonde tutto in Rai o si privatizza, ma sul serio, per una Cinecittà digitale e terrestre, cioè con i piedi per terra (e non sospesa a mezz’aria sulla ruota del luna park costruito negli ex Dino studios).

 

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:26