Tra i cortei romani e la voglia di cambiare

Tutti i talk-show della domenica si sono occupati di due avvenimenti: il comizio di Matteo Salvini in piazza di Spagna, con i relativi cortei l’uno contrapposto all’altro ed il terrore inculcato dal “chierichetto” Angelino Alfano, dal prefetto e dal questore nei romani che si sono guardati bene dal frequentare il centro storico.

Chi come me, che sono innamorato della più bella città del mondo, il sabato non ha rinunciato all’abitudine della solita passeggiata dopo un frugale pranzo in una trattoria di via Vittoria, ha avuto la curiosità di assistere in una piazza gremita alla manifestazione anti-Renzi, organizzata dalla Lega Nord di Salvini. In un primo momento, vedendo sventolare solo bandiere leghiste, ho avuto la sensazione che Salvini, al di là delle dichiarazioni giornaliere improntate al sentimento nazionale ben lontano da quello di Umberto Bossi, volesse, profittando dello stato disastroso nel quale si trova il centrodestra, condurre la solita battaglia leghista.

Senonché, dando uno sguardo allo splendido Pincio, mi sono accorto che vi era un fiume di gente che sventolando il tricolore ed innalzando al cielo la gigantografia dei due marò, invadeva la piazza al grido di Italia, Nazione e Patria, significando che la manifestazione aveva un solo unico obiettivo: denunziare le malefatte del “pifferaio fiorentino”, con il contributo decisivo dei voltagabbana di Alfano, ben lieti di identificarsi con lo zerbino del Partito Democratico. Con l’intervento poi della straordinaria “Virago”, Giorgia Meloni, ho avuto la certezza del risveglio del sentimento nazionale che ha praticamente annullato il sentimento padano. I commenti di Alfano e compagnia lasciano il tempo che trovano, non essendo il popolo italiano più quello che loro pensano che sia. Infatti, caro Arturo, bisogna prendere atto che i moderati che costituiscono (lo penso anch’io) ancora la maggioranza del Paese non sono più tali e se non gradiscono il linguaggio scurrile di Salvini, sono fortemente incazzati per le gesta dei governi che si sono avvicendati dal 2011 in poi, che li hanno impoveriti e che hanno consentito al pifferaio da ultimo di frequentare, lui sì il vero zerbino, i salotti buoni dell’Europa di Angela Merkel e della Troika, con l’atteggiamento sottomesso di chi chiede, come gli zingari con la mano aperta, permessi e concessioni. Il tutto per assecondare i poteri forti, fra i quali le banche che, in ogni caso (anche quello squallido Monte dei Paschi di Siena o delle Banche Popolari), bisogna salvare.

I poveri cittadini che vivono in uno stato fino a non molto tempo fa inimmaginabile, debbono sorridere per gli ottanta euro in busta paga, salvo poi accorgersi che l’elemosina serve a malapena a pagare la bolletta del gas. Ma vi è di più, gli italiani giornalmente si accorgono di essere stati abbandonati dallo Stato, nella tutela dei loro diritti ed interessi se l’esercizio della giurisdizione è in uno stato tale di degrado da non poter consentire prima di vent’anni di ottenere giustizia. Vorrei che insieme a me qualcuno assistesse, sia in udienza che fuori udienza, a ciò che accade nella Corte d’appello civile di Roma. I fascicoli sono ammassati nei corridoi e gli avvocati per depositare una memoria difensiva debbono rintracciare il loro fascicolo per poi portarlo al cancelliere per il deposito. L’udienza inizia alle ore 9,30, ma per trattare la causa si è costretti ad attendere anche tre ore (se non quattro) per essere ascoltati, con il provvedimento finale del presidente del collegio, che rinvia la causa al marzo del 2018, per la precisazione delle conclusioni e con il rischio della rimessione della causa sul ruolo qualora venissero accolte le istanze istruttorie. Dieci anni per il primo grado, almeno dieci per il secondo, non so se io, che sono l’avvocato, avrò la fortuna di vedere la fine di questo processo.

Ma chi se ne frega, l’importante è che si consenta alle banche di acquisire un posto dominante in una società di capitali della quale faccia parte un avvocato, ovviamente socio minoritario, che assisterà l’istituto con compenso minimo e senza poterlo assistere con l’autonomia necessaria. Tra cliente ed avvocato ci deve essere un rapporto di fiducia non di sudditanza. È questo il risultato delle tanto propagandate liberalizzazioni? È solo la fine della professione che un tempo veniva definita la più nobile del mondo proprio per l’autonomia e l’indipendenza che la caratterizzava. Oggi preferisco non definirla perché offenderei me stesso!

Infine, l’ennesima raccomandazione al Silvio Berlusconi di un tempo, non insegua i voltagabbana ed abbandoni i soliti consiglieri e li sostituisca con una persona che abbia le dovute qualità, così come ha fatto con gli avvocati, scegliendone uno, il migliore: Franco Coppi.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:30