Libertà d’informazione e giustizia sommaria

venerdì 6 marzo 2015


Esiste un perverso collegamento tra mezzi di comunicazione e giustizia sommaria, dovuto ad un utilizzo improprio della libertà di informazione e dell’applicazione della carcerazione preventiva.

Si tratta di violazioni gravi.

L’utilizzo delle informazioni, legato al mondo giudiziario, è diventato un argomento scottante, perché i mezzi di comunicazione sono in grado di formare un pilotato sentire comune dei cittadini su temi importanti come casi di presunti omicidi, di malasanità, di errori giudiziari, e di vicende legate a personaggi politici. Inoltre, l’Italia si è di recente ribadito, è tra i paesi meno liberi nella divulgazione delle notizie e meno rispettosa della normativa sulla misura cautelare della carcerazione preventiva (nonostante la recente più puntuale regolamentazione).

L’insieme di queste due violazioni ha effetti esponenzialmente deleteri.

Se guardiamo al mondo dell’informazione, è evidente che la capacità, talvolta pervasiva, dei mass media dovrebbe essere bilanciata dalla volontà di analisi dei fatti da parte del lettore, oltre che dalla neutralità dell’informazione fornita dagli operatori del settore. Solo così il lettore potrebbe avere una notizia corretta, ma in realtà per ottenerla sarebbe costretto ad acquistare più quotidiani ed a confrontare vari articoli sulla stessa notizia. Ed oggi tempo e denaro scarseggiano. Anche per questo, l’informazione dovrebbe essere neutra, priva delle convinzioni maturate dal giornalista sui fatti di cui scrive. Al cittadino dovrebbe essere data una notizia il più possibile semplice, chiara, comprensibile, priva di tecnicismi, che possa rappresentare semplicemente una fotografia dell’accaduto. Poi, ognuno è libero di approfondire i fatti, andando a leggere i commenti o le varie opinioni. Questo consentirebbe a tutti di accedere all’informazione, in maniera asettica, contribuendo a formare un’opinione pubblica avveduta e presente.

Ma la realtà è ben altra.

Sono in voga le notizie “spot”, utili a vendere qualche copia in più del quotidiano, o ad aumentare lo share di una trasmissione televisiva che forse in fondo ha poco da dire. Ed, ancora peggio, le “notizie ad orologeria” pronte ad essere usate e tenute nel cassetto, sino a quando non sia necessario pubblicarle per questo o quel fine. Spesso queste notizie, lanciate con clamore, non sono neppure accertate nella loro fondatezza e veridicità, con il rischio di ledere gli altrui diritti in modo difficilmente rimediabile a posteriori. È pur vero che, alcuni ritengono, che sia la domanda a fare l’offerta, cioè sarebbe il cittadino che “brama” certe notizie. L’applicazione di questo principio al mondo dell’informazione è poco attinente. Infatti, la capacità pervasiva di uno strumento come la televisione è in grado di modificare, alterare, indirizzare il comune sentire, formando la domanda. In ogni casa vi è almeno un televisore, mentre i quotidiani scarseggiano, ed internet (computer), in alcune realtà sociali, è una chimera. Dunque è la tv che diffonde maggiormente, e con più facilità, le notizie. E questo è un problema, perché la televisione non consente, a differenza della notizia cartacea, la possibilità di analisi. Il giornale lo si può leggere e rileggere, tornare in dietro su quanto letto per comprendere meglio la critica del giornalista che ha scritto il pezzo e farsi una propria idea.

Lo stesso dicasi per le notizie on line: anche il computer consente una possibilità di riflessione e confronto sui fatti raccontati.

Il rischio connesso a questo tipo di informazione è ancor maggiore quando si interviene nell’ambito giudiziario. Ogni volta che si lascia spazio alla sommarietà ed alla preventiva analisi fuori dalle aule giudiziarie di fatti di cronaca, destinati a giungere innanzi al giudice naturale, si ledono diritti garantiti dalla Carta Costituzionale, oltre che dai trattati internazionali. La gravità di questo modo di operare è, talmente, evidente che le prime obbiezioni dovrebbero provenire proprio dai magistrati, dato che alcuni di loro si prestano ad esprimere opinioni e convincimenti proprio attraverso gli organi di stampa. È sotto gli occhi di tutti che la magistratura in merito non ha comportamenti univoci. O vige sempre lo “stretto riserbo” sulle indagini in corso, oppure mai. Non si può richiamare questo “scudo” a piacimento o secondo le convenienze del momento. È dunque evidente, che ci troviamo di fronte ad un uso, da parte dei giudici, distorto di consenzienti mezzi di comunicazione. Ricordiamo la costante casuale fuga di notizie dalle procure che annunciano arresti di politici, indagini in corso, nomi di indagati, amplificati ad arte da alcuni mezzi di informazione. Questo legame, mai riconosciuto, porta sempre più alla diffusione di una giustizia sommaria che non garantisce nessuno. Tutti possono essere esposti al pubblico ludibrio improvviso, imprevedibile, che spesso viene veicolato dalla televisione. Infatti, ogni volta che si verifica un caso eclatante, tale da attirare la curiosità del cittadino, dall’arresto del politico, all’omicidio, all’attentato terroristico, alla truffa milionaria, si procede immediatamente con il “processo televisivo”. Diciamo, per la verità che si tratta di uno dei “tribunali” più efficienti. Quel “tribunale” è velocissimo e funziona secondo uno schema collaudato. La stessa sera in cui è stata diffusa la notizia, si inizia con dirette televisive e con ospiti eccellenti, già, con la verità in tasca, pronti a raccontarci la loro versione dei fatti che forse neppure conoscono. Durante la diretta si assiste a dibattiti tra giornalisti, sociologi, criminologi. Si arriva addirittura a “sentenziare” sulla presunta colpevolezza o innocenza, così influenzando la platea televisiva e l’opinione pubblica.

Questa pseudo sentenza, spesso aberrante, è più dannosa di quella vera.

In sostanza è stato introdotto un ulteriore grado di giudizio, oltre i tre previsti, che è formidabile per tempismo e pressapochismo. Con una sola trasmissione televisiva si riesce a fornire una visione dei fatti che è in grado di distruggere in poche ore la vita di qualsiasi cittadino. Basti pensare al recente caso della Panarello, madre del piccolo Loris Stival. La Panarello è già una vittima della gogna mediatica. Si è proceduto, come al solito, con una superficialità informativa e processuale devastante, impedendole di essere presente al funerale del proprio figlio. A ciò si aggiunga che oltre a questo “quarto grado” di giudizio il presunto colpevole è spesso sottoposto anche alla misura cautelare della carcerazione preventiva, utilizzata dalla magistratura in maniera “impropria”, nella speranza di rendersi più agevole il lavoro ottenendo una confessione dal presunto colpevole. Infatti, la carcerazione preventiva sopperisce ad alcune lacune ed errori degli organi inquirenti. Perché si è visto che spesso molti indizi, elementi probatori, riscontri processuali, sono alterati o non presi in considerazione dagli stessi soggetti che intervengono nell’immediatezza dei fatti. Dopo anni, ci si accorge della superficialità con la quale sono stati posti in essere alcune operazioni di raccolta delle prove che sarebbero state determinanti per rendere una giusta sentenza. Ed allora è meglio fare pressione psicologica sul presunto colpevole, con una condanna mediatica quasi immediata e la carcerazione preventiva (che ricordo è ammessa solo per casi tassativi indicati dal codice e non suscettibili di applicazione analogica o interpretazione estensiva), in attesa che crolli e confessi il reato, se commesso. Appunto, se commesso.

Immaginiamo che, invece, sia innocente.

Quell’individuo è una persona ormai distrutta, devastata nel proprio intimo, leso nei propri diritti. La privazione della libertà è per una persona colpevole già penosa, pur essendo giusta. Ma, per il presunto reo, la carcerazione preventiva deve essere applicata esclusivamente nei ristretti limiti della norma. Diversamente, non siamo in uno stato di diritto, soprattutto oggi, che le condizioni carcerarie sono pessime e la tanto auspicata funzione rieducativa della pena è un’ utopia (tranne poche eccezioni). Già per un delinquente recidivo il carcere è inutile, se non addirittura dannoso, immaginiamo per chi si ritiene innocente (e così dovrebbe essere per l’opinione pubblica sino a sentenza definitiva) cosa significhi trovarsi, dall’oggi al domani, richiuso tra quattro mura, spesso fatiscenti ed inadeguate, privato di quasi tutto ed in uno stato di totale confusione. Non dobbiamo avere la memoria corta, ricordiamo i suicidi del periodo di tangentopoli, durante il quale si è fatto della misura della carcerazione preventiva uno strumento di confessione. È facile guardare la tv è schierarsi durante un talk show da una parte o dall’altra, parteggiare in attesa della condanna mediatica, ma se immaginiamo noi stessi al posto della madre, imputata di omicidio del figlio ed in carcere, in attesa che la magistratura svolga la propria attività, e ci spostiamo dalla comoda realtà virtuale a quella reale, allora diventiamo garantisti come per incanto. E proprio perché, parte della magistratura attraversa storicamente un periodo di scarsa lucidità e dubbia indipendenza, essere garantisti è un dovere. In caso di innocenza, il recupero di una vita normale, dopo esser passati per il tritacarne mediatico-giudiziario, è difficilissimo. Non basteranno neppure cospicui risarcimenti (rari) economici a mitigare le sofferenze patite ingiustamente dall’innocente. Nessuno gli restituirà la dignità persa, la serenità precedente, il rispetto dei familiari, anche perché gli stessi mezzi di informazione, a distanza di molti anni (secondo i tempi della giustizia) daranno un taglio minore alla notizia di estraneità ai fatti o di errore giudiziario, relegandola in fondo ad un telegiornale o alle pagine di un giornale. Così continuando, se non porremo un argine, andremo ancora di più verso una deriva giustizialista con un uso mediatico del processo, che nuoce all’imputato, alla giustizia, ed alla libertà di stampa.


di Fabrizio Cristadoro