Prescrizione, Renzi questa è una barbarie

venerdì 6 marzo 2015


Diciotto anni per ottenere una sentenza definitiva per il reato di corruzione. Questo è quello che si vorrebbe permettere in barba al principio della ragionevole durata del processo, certamente irrilevante. In barba al diritto di difesa, ineffettivo a tale distanza temporale dal reato. In barba al principio della funzione rieducativa della pena, non efficace su di una persona differente a tale distanza dal fatto. In barba, insomma, ad una serie di principi di civiltà giuridica in nome di una presunta emergenza prescrizione che non esiste.

Ce lo dicono i dati ufficiali che dimostrano, come più volte ricordato di recente, che la prescrizione matura nella fase delle indagini preliminari per quasi tre quarti dei casi, mentre montagne di fascicoli giacciono negli armadi delle Procure che – nell’ombra e al di fuori di qualsiasi controllo e di qualsiasi responsabilità – pongono rimedio in modo discrezionale al sovraccarico causato dall’ipocrisia dell’azione penale obbligatoria e dalla ipertrofia del sistema penale.

Quegli stessi dati attestano che la percentuale di fascicoli per reati contro la pubblica amministrazione che si prescrivono è in linea con la media (intorno al 10 per cento dei fascicoli iscritti per il reato di corruzione propria), mentre altri sono i reati - anche gravi - che si prescrivono in misura abnorme; questi sì anche per una peculiare difficoltà di loro accertamento (il riferimento è ai reati edilizi e a quelli ambientali, che raggiungono percentuali superiori al 50 per cento nei dati riferiti agli anni 2010-2012 per tipologia di reato). Il doppio binario per alcuni tipi di reati, sempre avversato in ogni settore dagli avvocati penalisti, appare ancor meno giustificato in questo caso. È dunque evidente come il bersaglio sia sbagliato (intervenire sulla prescrizione dal momento del rinvio a giudizio e non invece su quella nella fase precedente, molto più significativa sul piano statistico), come sbagliati sono i mezzi (manca una seria depenalizzazione, che nonostante la delega approvata con legge 67/2014 non è partita; manca una rimodulazione dei riti alternativi che li renda seriamente appetibili). Ancora una volta, la politica perde l’occasione per affrontare il nocciolo della questione mancando il “bersaglio giusto”.

La ragionevole durata del processo sarebbe principio di maggiore pregnanza solo che si raggiungesse il preliminare obiettivo della ragionevole durata delle indagini preliminari. Il raggiungimento di questo obiettivo non può prescindere dall’effettiva tutela giurisdizionale dei termini massimi di durata. Il progetto condiviso dalla commissione Fiorella, per esempio, prevedeva un termine di prescrizione da ricondursi all’inutile decorso di un periodo pari al doppio della durata massima delle indagini preliminari. Evidentemente è molto più semplice rincorrere il facile consenso con un aumento delle pene e dei termini di prescrizione per i reati di corruzione, piuttosto che affrontare in modo organico il problema della ragionevole durata del processo, presidio posto a tutela dei cittadini tanto quando accusati di un reato quanto ove ne siano vittime.

Fortunatamente, lascia ancora sperare in un ripensamento in aula la spaccatura tra le forze politiche consumatasi in Commissione Giustizia della Camera. Il fatto che qualche politico voglia perseguire la via meno popolare, discostandosi dal pensiero unico della maggioranza, è fonte di qualche ottimismo. Confidiamo, quindi, che vi sia una consapevole riflessione priva di demagogia o interessi, ma fondata sui dati reali e sulla irrinunciabile tutela dei principi democratici del nostro sistema giudiziario. E suggeriamo al Premier un hashtag che non può – per ora – che suonare così: #nonèlavoltabuona.

 

Il Consiglio Direttivo della Camera Penale di Milano


di Salvatore Scuto