Il deluchismo populista

sabato 7 marzo 2015


Sgombriamo subito il campo da eventuali dubbi: Vincenzo De Luca sarà sicuramente un ottimo sindaco ed un uomo di specchiata onestà. Non lo mettiamo in dubbio sia perché non abbiamo elementi per affermare il contrario sia perché il gradimento dei salernitani verso di lui ci induce a pensare che sia un buon amministratore o, quantomeno, gradito.

Il problema non è quindi De Luca in sé, ma lo stucchevole deluchismo da operetta di cui è rimasto vittima lo stesso uomo forte di Salerno e che ha molta presa sul popolino all’eterna ricerca di una figura di riferimento. Non sappiamo se il fenomeno sia puramente voluto, ma pare che il deluchismo faccia presa specialmente sugli ultimi (meglio se frustrati) o, se vogliamo, su quelli che, dalla festa delle medie in poi, sono stati esclusi da tutto sviluppando per questo un livore sociale quasi cronico. Ma il deluchismo è anche molto di più visto che ormai questo smalto da intransigenti incazzati di facciata si è spalmato anche sul ceto medio.

Forse ha ragione Marco Demarco quando lo dipinge come un prodotto tipico del plebeismo carismatico meridionale, perché c’è troppa retorica nella maschera da uomo tutto d’un pezzo che De Luca si è voluto cucire addosso, c’è troppa rigidità nel suo carattere intransigente da fustigatore della politica politicante, c’è troppa arroganza in questo suo considerarsi “altro” rispetto ai palazzi del potere cui il nostro non è proprio estraneo visto che ha occupato posti di rilievo nel Partito Comunista, nelle istituzioni locali ed in quelle nazionali.

È la retorica dell’onestà a destare sconcerto, è il decisionismo ostentato con arroganza a rendere quello di De Luca un fenomeno contagioso con più ombre che luci. Ripetiamo, non è l’ex sindaco di Salerno in sé ad essere in discussione, ma il suo atteggiamento prosaico che offre la sponda alle pulsioni più triviali della gente comune alla continua ricerca di un Masaniello di cui essere orgogliosa e che le canti a quei porci dei potenti, incapaci e maneggioni, possibilmente condendo il tutto con un po’ di campanilismo un tanto al chilo che non guasta mai. De Luca ha accettato di rappresentare questi istinti e si è calato nel personaggio a tal punto da delirare, auto-assolvendosi con formula piena da tutte le colpe della politica come se le colpe fossero sempre altrove e mai sfiorassero lui, uomo del popolo, che nulla ha a che spartire con gli apparati, con i capibastone e con i voti inquinati da fenomeni poco chiari. Lui è altro, mica ha fatto politica negli ultimi vent’anni; lui ha fatto lo sceriffo del pueblo.

Da questo teorema non sfuggono nemmeno i suoi elettori: costoro, a sentir lui, sono tutti certificati dalla Madonna di Pompei, così come il suo immacolato operato che è scevro da qualsiasi colpa “a prescindere”, perché lui solo è quello che ascolta la sua gente (già, ma sua perché, per diritto acquisito?), che agisce per il bene della collettività, che è distinto e distante dai malfattori perché primus inter pares capace di guidare il gregge verso il progresso e la verità sputacchiando in faccia ai disonesti.

Questo astio verso gli altri, questo disprezzo verso chi non sta con lui glielo si legge in faccia e non riesce proprio a scrollarselo di dosso: forse è uno dei pochi uomini al mondo ad avere la faccia incazzata anche quando vince, fronte alta e sguardo solenne con annessa espressione ai limiti dello schifato, tipica di chi sente su di sé il peso atroce di essere costretto a rappresentare i buoni al cospetto dei cattivi, usando il registro verbale tagliente e superbo tipico di chi ritiene di non dovere riconoscere alcuna dignità a chi è antropologicamente diverso da lui e dal sistema valoriale che unilateralmente si è intestato. E lo vedi da come si pone nei confronti della legge Severino che, qualora vincesse le Regionali cui si è candidato a valle della vittoria alle primarie del Pd, ne sancirebbe la sospensione dalla carica di presidente, stante una condanna in primo grado per abuso d’ufficio.

La legge in questione, se tarpa le ali agli altri è la giusta mannaia contro i parrucconi malvagi mentre, se lambisce la sua cristallina verginità, innesca una battaglia di civiltà contro una legge che ammazza la democrazia e che viene applicata in virtù di una condanna che per gli altri si chiama abuso d’ufficio mentre per lui è il lapsus semantico di un povero Cristo che ha scritto su un atto “project manager” in luogo di “coordinatore di un gruppo di lavoro”. Quando la legge impedisce al nostro tribuno di esercitare le funzioni che il popolo gli chiede a gran voce di esercitare, diventa una questione che ammazza le regole della democrazia mentre se caccia dal Senato Berlusconi è una cosa diversa, è una legge che tutti hanno votato e che libera le istituzioni dai briganti.

E che nessuno si permetta di accostare le due vicende (quella sua e di Berlusconi) che non sono equiparabili per diritto divino anche perché, una legge come quella in questione che arriva a tarpargli le ali, diventa automaticamente un imbarazzo non per lui ma per il Parlamento cui spetta risolvere lo spiacevole equivoco. Baby è la teoria del perfetto giustizialista 2.0, quel doppiopesismo che assimila le opinioni all’elastico delle mutande e che rende una legge giusta a seconda di chi penalizza.

Per cui adesso il nostro sindaco benemerito chiede al Parlamento di risolvere le criticità di questa norma imbarazzante, sollecitando cioè un provvedimento che per altri sarebbe valso l’appellativo di legge ad personam. Ma per lui no, per carità. In questo caso “è una giusta revisione”, per dirla con i bersaniani; “bisogna prendere atto di oggettive criticità connesse alla legge Severino”, per dirla con la Serracchiani; “è una legge che non cambieremo come Governo ma, se il Parlamento volesse potrebbe tranquillamente risolvere la stortura”, per dirla con la Boschi.

Ma che non si dica che le anime candide del progressismo nostrano stiano tentando il colpo di mano pensando ad una legge ad personam. Quelle le fa solo Berlusconi, la cui vicenda sarà sicuramente diversa da quella di De Luca, al quale raccontarono, in occasione della decadenza da senatore che, giusta o no, dura lex sed lex.


di Vito Massimano