La parità è neutra, non al femminile

Faccio l’avvocato. Non sono un avvocato e tanto meno un’avvocatessa o, peggio, un’avvocata. Il titolo non mi qualifica come persona, ma dà un nome, neutro, al mestiere che faccio. E voglio essere giudicata e pagata per come svolgo il mio lavoro, per i risultati che ottengo, non per i miei organi genitali.

Se non è così, questo è il problema. Non il modo in cui mi chiamano, ma il modo in cui valutano il mio lavoro. Detesto l’ipocrisia stucchevole del voler affibbiare definizioni politicamente corrette alle persone declinandole al femminile, perché ghettizza le donne ancora di più. Questa finta tutela puramente nominativa, come se fossimo una specie da proteggere attaccandoci un cartello al collo, non solo non risolve il problema, ma lo amplifica. Cosa cambia ad una donna che fa il dirigente o il ministro essere chiamata dirigenta o ministra se poi nessuno la ascolta solo perché donna? E’ una politica di facciata che non cambia la sostanza, non bada alla sostanza, non fa sostanza.

È un problema di mentalità, d’accordo, ma continuare a distinguere i lavori per chi li svolge stravolgendo la lingua italiana con neologismi ridicoli non fa altro che evidenziare una distinzione che è sbagliata alla radice. E la mentalità la si cambia ritornando alla sostanza, giudicando le persone in base al merito o al demerito di ciò che fanno realmente, non dipingendo di rosa i loro mestieri. Viviamo in una società che ha perso di vista la concretezza, il prodotto del lavoro, i risultati ottenuti, che non li premia, che non punisce i demeriti, in cui l’assistenzialismo la fa da padrone e non può che creare privilegi di chi ottiene senza meritare e risentimento di chi merita senza ottenere. Una società così avviluppata nei sensi di colpa che ci vogliono inculcare che arriva ad eleggere un presidente solo perché donna o solo perché nero a prescindere totalmente da quali fossero le loro idee politiche ed i loro meriti, o meglio demeriti visti i disastri che hanno combinato.

E allora facciamola finita con questi sensi di colpa per un nome. Preoccupiamoci piuttosto se i giornalisti passano più tempo a giudicare i vestiti, i capelli o i tacchi di un ministro, se donna, e non ci raccontano nulla di ciò che ha fatto o non ha fatto di buono nel posto che occupa. Chiediamoci se sia normale che i rotocalchi siano pieni di servizi sui veri o presunti accompagnatori di politici, se donne, e non ci siano mai foto delle innumerevoli accompagnatrici di politici, se uomini. E vi assicuro che vivendo a Roma ne vedo a bizzeffe. E il problema non riguarda solo le persone famose. Fate a caso al vostro luogo di lavoro ed ascoltate bene i discorsi che si fanno, le battutine, i modi di trattare le donne, soprattutto quando sono brave. Frasi e commenti che arrivano sia da donne che da uomini, purtroppo. Quella ha ottenuto il posto è perché è l’amante di Tizio.

Caio la promuove perché se la vuole portare a letto. Lei se lo comanda. È nervosa perché ha il ciclo o non va a letto con qualcuno da troppo tempo. Non ci sarà mai parità finché una donna non può parlare in riunione e se lo fa viene zittita o nessuno la ascolta, non può avere una buona idea perché subito o qualcuno se ne appropria o viene bocciata o boicottata dall’insicuro di turno che non può accettare che non sia venuta a lui. Finché un capo teme sia messa in dubbio la sua virilità solo perché dà retta o potere ad una donna brava che lavora per lui, perché altri omuncoli anziché apprezzare il suo lavoro subito dicono che è lei che comanda su di lui.

Di raccomandati, idioti, incompetenti ce ne sono a bizzeffe sia tra gli uomini che tra le donne, così come di volenterosi, intelligenti e competenti. Non sono i nomi che vanno cambiati, ma il modo in cui i primi vengono allontanati dai posti inadatti a loro ed i secondi premiati per il loro lavoro, a prescindere dal sesso.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:21