Sistema mediatico-giudiziario: una dura condanna

Finalmente un’altra pagina vergognosa di una giustizia scandalosamente condizionata dai media si è chiusa con l’assoluzione di due conclamati innocenti. Finalmente quella che era stata dipinta da una informazione medioevale come la coppia diabolica, dominata da una mantide spietata e cinica, ha ottenuto dalla Suprema Corte di Cassazione la cancellazione della montagna di infamie che ne hanno distrutto comunque la giovinezza, lasciando sulla loro persona un marchio indelebile.

Amanda Knox e Raffaele Sollecito sono stati assolti per non aver commesso il fatto, così come sarebbe dovuto accadere fin dal primo, surreale processo, sostanzialmente basato su un teorema privo di alcun riscontro probatorio. Anzi, considerando che sulla scena del crimine non vi erano tracce che potessero rivelare la presenza dei due ragazzi nel momento della barbara uccisione di Meredith Kercher - contrariamente alla montagna di prove repertate contro il reo confesso Rudy Guede - Amanda e Raffaele dovevano essere scagionati già nelle prima fasi, senza giungere ad un dibattimento trasformato in una sorta di ordalia. Perché, come documentò a suo tempo la giornalista Maria D’Elia nella sua contro-indagine “Il delitto di Perugia - L’altra verità”, il presunto depistaggio postulato, e mai dimostrato, dall’accusa rappresenta qualcosa che va ben al di là di qualunque ragionevolezza. Cancellare selettivamente in poche ore ogni traccia di due persone, all’interno di un ambiente in cui - sempre secondo il Pm - è avvenuto di tutto, lasciando in evidenza solo ciò che incrimina il terzo, presunto complice, costituisce qualcosa di umanamente impossibile e, dunque, di illogico, sebbene nel lombrosismo di ritorno che si pratica in molti talk televisivi la logica conti ben poco. Da questo punto di vista i due elementi sbandierati per anni dai media colpevolisti come prove inconfutabili del crimine commesso dai due ex fidanzati, il coltello da cucina preso a casaccio nella casa di Sollecito e il Dna sul gancetto, si sono rivelate due vere bufale. La stessa D’Elia si pose la seguente domanda: ammesso e concesso che la microtraccia rinvenuta sul medesimo gancetto sia di Raffaele Sollecito, come è stato possibile non contaminare la stoffa in cui esso è attaccato? In altri termini, prendendo per buona la tesi dell’accusa (la quale fu poi smontata dai periti del tribunale del primo appello), il ragazzo avrebbe dovuto strappare il reggiseno alla povera Meredith tirandolo solo per una parte metallica spessa qualche millimetro, evitando di toccare il resto. Per non parlare del coltellaccio, incompatibile con la maggior parte delle ferite riscontrate sulla vittima e che, volendolo lo stesso far rientrare in gioco nonostante l’evidenza, dato che la sua lama è lunga quasi 20 centimetri, sarebbe dovuto essere impugnato a metà lama, visto che i fendenti più profondi non superano i 9 centimetri.

Eppure a queste prove fantasma, prive di alcun fondamento logico, si ostina a voler credere l’avvocato Maresca, legale di una sempre più addolorata e confusa famiglia Kercher. Questo incommensurabile principe del foro, anche dopo la sentenza di assoluzione, continua ad interpretare la parte, a nostro modesto parere molto imbarazzante per chi dovrebbe sostenere le ragioni della vittima, di solerte spalla della pubblica accusa, continuando a raccontare al mondo la favola tragica di un delitto commesso da tre persone.

Sotto questo profilo concordo pienamente con la valutazione dell’ottimo Claudio Pratillo Hellmann, il giudice che presiedeva la Corte d’Appello che assolse Amanda e Raffaele nel 2011: l’unico a conoscere tutta la verità sulla morte di Meredith Kercher è Rudy Guede, perché egli era sicuramente in quella casa quando è stato commesso il crimine. Lo stesso Pratillo Hellmann, dopo l’ultima sentenza della Cassazione si è lasciato andare a questo sfogo liberatorio, dopo aver espresso il pieno apprezzamento per il giudizio della Suprema Corte: “Per quella sentenza venni linciato anche dai magistrati. Molti colleghi mi tolsero il saluto, la mia carriera finì lì, praticamente fui costretto ad andare in pensione”.

In realtà, considerando le decine e decine di riscontri a carico dello stesso Rudy Guede, le cui tracce biologiche sono state rinvenute ovunque sulla scena del crimine, il pasticciaccio brutto di una condanna per concorso in omicidio, ottenuta su un piatto d’argento dal ragazzo di colore, non si sarebbe evitato. Esso è stato il frutto perverso di una giustizia teorematica la quale, come ha correttamente rilevato l’avvocato Bongiorno, ha cercato in tutti i modi di far combaciare i pezzi di un puzzle che proprio non si incastravano. Se si fossero valutati i fatti dall’inizio, anziché correre dietro ai fantasmi, la famiglia della povera Meredith avrebbe ottenuto piena giustizia.

D’altro canto, occorre aggiungere per onestà intellettuale, è pur vero che Amanda e Raffaele possono tirare un tardivo sospiro di sollievo in virtù di ciò che presumibilmente fece il Guede nell’abbandonare la casa in via della Pergola. Se quest’ultimo, infatti, non avesse chiuso a chiave la stanza della povera ragazza inglese, quasi certamente per guadagnare tempo, i due fidanzati sarebbero entrati nella stanza del delitto, visto che lo stesso Sollecito tentò di sfondare la porta della stanza di Meredith. A quel punto, irrompendo incautamente nel luogo del delitto prima dell’arrivo della polizia, non so chi e cosa avrebbe potuto salvare costoro da una pena lunghissima. Anche su quest’ultimo punto occorrerebbe riflettere.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:32