Il Governo e la corsa della Regina rossa

Stiamo correndo, non c’è dubbio. Ma stiamo correndo sul posto. L’Italia sta correndo sul posto. Ci fa bene alla linea, certo. Ma lì dove eravamo, lì siamo.

Non è correre sul posto questo annunciare riforme in tutte le direzioni possibili salvo poi scoprire che annunciare non significa fare e fare bene? L’esempio della riforma della scuola è sufficiente? E quello della riforma giudiziaria? E quello delle provincie, morte – si dice – ma apparentemente vive e vegete? E quello delle riforme istituzionali?

Sia chiaro: la riforma del mercato del lavoro e quella delle banche popolari erano e rimangono due riforme tanto attese quanto importanti. La prima anche e soprattutto perché accompagnata da una decontribuzione purtroppo solo temporanea. Ma nel complesso è difficile non avere la sensazione che l’energia di cui questo governo e il suo presidente sono ampiamente provvisti non stia portando ancora da qualche parte.

Il Documento di economia e finanza 2015 (Def) è un esempio straordinario di questa tendenza ad agitarsi senza muoversi. A correre sul posto. Tutta l’azione che il Documento prevede proviene dall’ambiente esterno (o da una misteriosa ricomposizione della domanda a favore della domanda interna) in un contesto macroeconomico straordinariamente favorevole e che si presuppone – azzardiamo: con una punta di ottimismo? - possa rimanere tale per i prossimi cinque anni. Lì dove solitamente i governi programmano la loro azione in un dato periodo di tempo, noi invece programmiamo l’azione del resto del mondo. Così facendo ripetiamo a quindici anni di distanza l’errore commesso dalla politica italiana all’inizio del secolo (un errore che quella classe politica ha pagato a distanza di tempo con la sua rapida rimozione). Non sfruttare l’ambiente favorevole dell’euro per affrontare la vera grande riforma: l’avvio del processo di riduzione del debito pubblico.

Commissari diversi si esercitano a turno sul tema della revisione funzionale della spesa (far meglio quel che già facciamo con la spesa pubblica) finendo – come speriamo non dovrà accadere ancora, di qui a qualche mese – per chiamare revisione della spesa la revisione delle cosiddette tax expenditures e cioè l’aumento delle tasse. Le privatizzazioni sono un tema minore e – quando accadono – spesso ormai coinvolgono venditori e compratori ambedue appartenenti, direttamente o indirettamente, al settore pubblico. Le nazionalizzazioni avanzano: dall’acciaio agli alberghi. E per i contribuenti, la massima aspirazione ormai è quella di evitare aumenti di imposte e non di sognarne la riduzione. E come se non bastasse, la riforma della Pubblica amministrazione all’esame del Parlamento pare scritta con la stessa penna a cui dobbiamo le riforme della Pubblica amministrazione fallite negli ultimi due decenni.

Stiamo nuovamente decidendo di perdere l’occasione che ci viene offerta su un piatto d’argento: utilizzare il biennio 2015-2016 per porre la questione del debito pubblico e segnalare all’Europa ed ai mercati che il rientro è cominciato sul serio. Fra qualche mese sarà troppo tardi per farlo. Mancano solo 500 giorni alla scadenza posta dalla Banca Centrale Europea per il cosiddetto Quantitative easing (settembre 2016) e troppo spesso si dimentica che per l’Europa – diversamente che per altri Paesi – un’inflazione al 2 per cento è molto più che un obiettivo. È un termine contrattuale.

Del resto, se bisogna tenersi sempre e comunque pronti alle elezioni, allora diventa inevitabile che la politica economica si riduca ad una sola frase: “non si sa mai”. Se non si sa dove andare, correre sul posto è la soluzione più sicura.

 

(*) Editoriale tratto dall’Istituto Bruno Leoni

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:25