Sempre più nudi davanti allo Stato

Che il fine giustifica i mezzi, è qualche cosa che gli italiani si sentono ripetere incessantemente, quando si parla di lotta all’evasione. Siamo ormai consapevoli che le preoccupazioni dell’erario per la raccolta di entrate si trasformano in (oltremodo ambiziosi) obiettivi di performance dell’Agenzie delle entrate. Del resto, quando tra le voci di entrata del bilancio pubblico figurano anche numeri apparentemente precisi derivanti dalla lotta all’evasione, è facile che, anche solo per raggiungerli, l’amministrazione fiscale adotti tutti i comportamenti e gli atti che la legislazione consente.

Sappiamo anche che il diritto alla riservatezza è una cosa di cui parlare al passato. Innanzi all’obiettivo di recuperare quattrini presuntamente evasi, il fine giustifica i mezzi. Così siamo nudi di fronte allo Stato: il nostro ma anche gli Stati stranieri, in un crescendo di politicamente corretta trasparenza fiscale. Ma che il fine giustificasse i mezzi al punto di usare, per il superiore obiettivo della lotta all’evasione, dati acquisiti illecitamente, a questo no, non ci eravamo ancora arrivati.

È assai grave il principio di diritto formulato dalla Corte di Cassazione in due ordinanze della settimana scorsa a proposito della lista Falciani. In quelle due ordinanze, la Corte ha ritenuto che l’amministrazione finanziaria, nella sua attività di accertamento dell’evasione fiscale, possa avvalersi di informazioni bancarie a prescindere dal fatto che siano state acquisite con atto penalmente illecito. Non c’è più filtro, non c’è più baluardo contro un potere fiscale che è manifestamente in conflitto di interessi: gabelliere e beneficiario.

Ormai pure la Cassazione ritiene che “l’Amministrazione finanziaria, nella sua attività di accertamento della evasione fiscale può - in linea di principio - avvalersi di qualsiasi elemento con valore indiziario”. Anche la teorica eccezione dell’acquisizione dei dati in violazione dei diritti del contribuente, pur ribadita dalla suprema Corte, si riduce una volta ricordato che il segreto bancario non esiste più e che “l’esigenza primaria […] di concorrere alle spese pubbliche in ragione della propria capacità contributiva, alla quale si associa in modo altrettanto cogente l’obiettivo di realizzare una decisa lotta ai paradisi fiscali”, giustifica l’utilizzabilità di prove illecitamente acquisite.

Chi non ha da nascondere non ha da temere? Anche chi nulla ha da nascondere, proprio chi nulla ha da nascondere prima di tutti, non può non vedere la gravità della giustificazione dell’uso di materiale illecito. È il ritorno sommesso, ma non meno temibile, dell’uso legittimo di una forza totalitaria. Se assumiamo che un reato è un comportamento che ha rotto l’ordine e il patto sociale, come possiamo credere che volgere a proprio vantaggio i risultati di quel comportamento non perpetui la rottura del medesimo patto?

Se si guarda al diritto positivo, l’evasione fiscale costituisce la violazione di un obbligo imposto. Con altrettanta onestà intellettuale, sarebbe il caso di ammettere che l’uso di dati acquisiti con comportamenti penalmente illeciti costituisce la rottura di un vincolo di lealtà tra cittadini e istituzioni al solo scopo di procacciare entrate pubbliche. Senza tanti giri di parole. La tempestività di queste ordinanze della Cassazione con la scadenza della voluntary disclosure è un indizio, inquietante, di questa unica ragion di Stato.

 

(*) Editoriale tratto dall’Istituto Bruno Leoni

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:34