Luigi Capuana e nation building

“La storia come disciplina moderna nasce anche dall’esigenza di dare fondamento all’emergere e al consolidarsi degli Stati nazionali, di tutelare l’affermarsi di regimi e partiti politici, di giustificare le politiche espansive dei nazionalismi, di celebrare l’orgoglio e l’identità nazionale. Se si guarda al passato della nostra disciplina è impossibile dimenticare o sottostimare la funzione politica e pedagogica che sta alle sue origini” (V. Vidotto, Guida allo studio della storia contemporanea, Roma-Bari, 2004, pag. 15). Così si esprimeva una decina di anni fa lo storico Vittorio Vidotto, in una sua fortunata introduzione critica allo studio della storia contemporanea.

Tale funzione politica e pedagogica non possiamo non ritrovare nella penna di Luigi Capuana (1839-1915), di cui ricorre quest’anno il centenario della morte. A tal proposito è certamente meritevole di segnalazione l’iniziativa promossa dall’amministrazione di Mineo, città natale di Capuana, e dalla Casa Museo Luigi Capuana, che hanno allestito un ricchissimo programma culturale con l’ambizioso obiettivo di scandagliare i diversi interessi coltivati da Capuana che avrebbe rivelato doti non comuni non solo, come noto, come autore di romanzi e novelle ma anche nei campi della poesia, della critica letteraria, del giornalismo, della fotografia e dell’insegnamento, oltreché sul terreno istituzionale (Capuana ricoprì infatti la carica di consigliere provinciale a Catania e, per due mandati, quella di sindaco a Mineo). Un eclettismo, questo di Capuana, che avrebbe suscitato peraltro le critiche dell’amico Giovanni Verga. In quest’occasione intendiamo soffermare brevemente la nostra attenzione sul Capuana pedagogista e costruttore dell’identità nazionale, attraverso i manuali che redasse per le scuole elementari, tecniche e complementari (vale a dire le scuole femminili triennali, preparatorie alla scuola normale, create nel 1896 e soppresse dalla riforma Gentile del 1923). In questi testi si dipana una lettura delle vicende storiche della nostra penisola che individua nel conflitto, nella contrapposizione e nell’assenza di spirito unitario, di cui massimamente responsabili erano ritenute le varie forze politiche, le cause del ritardo dell’unificazione politica del Paese e del suo ordinato sviluppo socio-economico.

Al pubblico delle scuole elementari, Capuana offriva così la tradizionale laudatio temporis acti, che identificava nell’Età dei Comuni quasi una mitica età dell’oro, in cui l’agiatezza economica veniva associata indelebilmente all’autonomia politica acquisita ai danni dell’Impero, età dell’oro andata in frantumi a causa dei contrasti politici e sociali interni: “La storia che segue […] - scrive Capuana - non ha fiabe né leggende di sorta alcuna. Ma per trecento e più anni è triste e quasi vergognosa, anzi senza quasi, per l’Italia. Per qualche tempo i Comuni avevano prosperato nonostante le lotte dei partiti, e tutta la penisola aveva goduto un respiro di benessere; ma presto le lotte avevano dato agio ai più astuti e più forti cittadini di usurpare il potere, opprimere le libertà, e ridurre a principati le repubbliche” (L. Capuana, Atti principali della Storia d’Italia raccontati da uno zio ai nepoti scolari di quinta classe elementare. Parte Seconda. Dalla scoperta dell’America fino al tempo presente, Catania, 1904, pag. 5).

L’autunno della politica era stato però accompagnato, secondo Capuana, anche qui facendo proprio un vero e proprio leitmotiv della cultura del tempo, dal primato della cultura italiana: “Dopo il Medio Evo, c’è stato un tempo in cui l’Italia era, in ogni cosa, la Maestra delle Genti; in cui la sua lingua era altrettanto diffusa pel mondo quanto la lingua francese al giorno di oggi. Galileo ha rinnovato l’Astronomia; Giambattista Vigo [sic], la scienza della storia; Volta, la fisica. Non c’è ramo di lettere, di arti, di scienze in cui il genio italiano non abbia lasciato vasta orma” (ivi, pag. 85).

Capuana non mancava in verità di ricordare al suo giovanissimo pubblico momenti in cui degli italiani avevano tentato la via del riscatto politico. A proposito, ad esempio, della disfida di Barletta di inizio Cinquecento, lo scrittore menenino non poteva non esclamare dolente: “Li avessero imitati tutti, per liberarsi dall’onta e dai danni del dominio straniero! Invece gli italiani di allora parteggiavano chi pei francesi, chi per gli spagnuoli, secondo gli interessi del momento, cangiando parte quando credevano che loro tornasse più conto” (ivi, pag. 12). Era quindi “destino che questa povera Italia se la spalleggiassero francesi, tedeschi, spagnuoli, come cosa di nessuno” (ivi, pag. 14).

La disamina della rinascita politica dell’Italia era poi condotta alla luce di un’impostazione che individuava nel liberalismo moderato e nel gradualismo e pragmatismo politico le vie maestre per assicurare livelli sempre maggiori di benessere economico e civile. Capuana, così, tuonava contro l’“assolutismo regio” come anche contro gli eccessi della Rivoluzione francese: “Nobili, clero, persone cattive e persone per bene in un fascio, quando la guillottina [sic] non bastava, venivano mitragliate in massa nelle carceri: e questo fu chiamato il Terrore” (ivi, pag. 34). Le truppe di Napoleone in Italia, poi, “i pretesi liberatori”, agirono “peggio dei barbari” (ivi, pag. 37). Cionondimeno, Capuana doveva ammettere che “il suo [di Napoleone] governo, tra gli abusi e i soprusi, fece gran bene all’Italia. In meno di due lustri, codici, strade, ponti, canali, edifizi di pubblico bene, protezione alle arti e alle lettere” (ivi, pag. 39). Stessi meriti Capuana riconosceva all’Impero asburgico, vero dominus della penisola italiana dopo il Congresso di Vienna del 1814-15: “L’Austria […] (bisogna dirlo) promoveva con larghezza il benessere materiale di quelle province, dotandole di ferrovie, di strade vicinali, di istituzioni economiche” (ivi, pp. 56-7).

Gli ostacoli, allora, alla realizzazione dell’unificazione italiana non erano solo di ordine internazionale, ma rimandavano ancora una volta alle fratture politiche interne. Le “discordie” e gli “eccessi” degli italiani, così, manifestatisi tragicamente ad esempio con l’assassinio del primo ministro dello Stato pontificio nel novembre del 1848, il liberal-moderato Pellegrino Rossi, “porsero facile pretesto ai princìpi di venir meno alle concessioni liberali fatte” (ivi, pp. 62-3). E nuovamente: “Quel che vi deve rimanere più fitto in mente è che nel ’48 e nel ’49, gli italiani hanno perduto soprattutto per colpa delle loro divisioni di partiti. E sono sicuro che vi sentirete allargare il cuore quando vedrete che, dieci anni dopo, essi avran fatto senno, e saranno uniti e concordi, posponendo alla Indipendenza e all’Unità della Nazione qualunque loro dissenzione di principii politici, qualunque interesse regionale” (ivi, pag. 69).

Il liberalismo moderato di Capuana lo avrebbe poi portato a esprimere la propria simpatia per Casa Savoia e Camillo Benso di Cavour. Dello schieramento democratico, infatti, pur lodevole nei suoi slanci patriottici, non poteva essere sottaciuto l’estremismo ottuso e infecondo. Mazzini, così, “non ostante i suoi errori, è un maraviglioso esempio di costanza e di amor patrio che nessun disagio, nessun patimento, nessuna delusione poterono vincere o diminuire” (ivi, pp. 51-2). Tuttavia, egli, “lontano della patria, incapace di giudicare le cose con freddezza, perché la sua fervida immaginazione gli alterava, gli ingrandiva i più piccoli avvenimenti, con le grandi qualità e coi grandi difetti degli esuli sommovitori di popoli, ebbe a soffrire parecchi disinganni da imprese mal organizzate, o inopportunamente promosse” (ivi, pag. 52). “Il gran cospiratore - osservava amaramente Capuana - continuò per la sua via di tentativi sbagliati, abortiti uno appresso all’altro, e che costarono la vita a tanti generosissimi giovani impazienti e irriflessivi, ispirati dalla sua parola e che lo ubbidivano ciecamente” (ivi, p. 53). Anche dopo la nascita del Regno d’Italia, non mancarono “gli impazienti e gli arruffoni” che “aizzarono” Garibaldi “contro Cavour, spingendolo a mettersi in opposizione al governo nazionale col pretesto che questi aveva abbandonato ogni idea di rivendicare le province rimaste in mano dell’Austria e specialmente Roma” (ivi, pag. 80).

Al radicalismo democratico Capuana contrapponeva il pragmatismo di Cavour, che “pensava che primo dovere suo e del governo era il riordinare economicamente il paese, formare l’esercito nazionale e attendere l’occasione di assalire nuovamente l’Austria” (ivi, pag. 81). All’ipotesi repubblicana, infine, Capuana rispondeva celebrando la figura di Carlo Alberto che, “interamente purgato da tutte le accuse che la malignità, la passione, la partigianeria politica gli avevano accumulato sopra, rifulge glorioso e tale rimarrà nella storia” (ivi, pag. 66).

Al compimento dell’Unità sarebbe seguito “un periodo privo di avvenimenti politici importanti, ma laborioso, in cui l’Italia spiegò un’attività straordinaria nel riordinare l’esercito, la marina, le amministrazioni dello Stato, e diede un sensibile incremento alle industrie, ai commerci, all’agricoltura” (L. Capuana, Breve Storia d’Italia ad uso delle scuole tecniche e complementari. Parte Terza. Evo Moderno, Catania, 1906, pag. 143). Mirando “sempre a un progressivo benessere, il giovane regno ristorò le sue finanze, rassodò con la triplice alleanza le relazioni con la Germania e con l’Austria, e diffondendo nel popolo l’istruzione cercò redimersi dell’analfabetismo” (ivi, pag. 145).

Capuana palesava così la sua adesione all’operato della Destra storica, presentata come una classe dirigente votata al buongoverno, alla stabilizzazione del quadro politico e alla subordinazione dei particolarismi partitici alle esigenze nazionali. Ciò non impediva a Capuana di affermare la necessità che l’Italia, una volta “rinfrancate le sue forze”, si cimentasse “nelle imprese di colonizzazione che formano la ricchezza e le forze di altre nazioni” (L. Capuana, Breve Storia d’Italia…, pag. 146). Da qui la condanna sdegnata della politica delle “mani nette” del primo governo Cairoli e il sostegno entusiasta al “crispinismo politico, effuso con ardore mitizzante” (A. M. Morace, Capuana e “La Voce”: lettere inedite a Giuseppe Prezzolini, in scritti offerti a G. Raya, Roma, 1982, pag. 384); “il germe della virtù del passato dorme un sonno fecondo e si desterà fiero e possente quando suonerà l’ora opportuna, l’ora del pericolo e della gloria” (cfr. Francesco Crispi, Giornale d’Italia, 31 luglio 1910 e I Mille e Francesco Crispi, Giornale d’Italia, 11 gennaio 1911).

 

(*) Professore associato in Storia contemporanea - Università degli Studi Roma Tre

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:22