Dialogo interculturale, a Baku il terzo Forum

mercoledì 27 maggio 2015


Si è svolta il 18 e 19 maggio a Baku, capitale dell’Azerbaigian, la terza edizione del “Forum sul Dialogo interculturale”. L’evento, nato nel 2008, ha tra i promotori l’Unesco, l’Alleanza delle Civiltà delle Nazioni Unite, l’Organizzazione mondiale del Turismo, il Consiglio d’Europa e la Presidenza dell’Azerbaigian. Hanno partecipato alle due giornate di lavori rappresentanti di più di cento organizzazioni intergovernative e non governative, parlamentari, ministri, accademici e diplomatici di numerosi Paesi. Tra i partecipanti anche Antonio Stango (nella foto Stango è a sinistra, a destra c’è Yahya Sergio Pallavicini), segretario del Comitato Italiano Helsinki per i diritti umani, al quale chiediamo la sua impressione sui lavori svolti.

L’Azerbaigian è noto come esempio di mosaico culturale del Caucaso, dove la convivenza religiosa ed etnica non sembra suscitare importanti problemi nel Paese. Nel mondo, invece, vi è troppa violenza legata alle differenze etniche e religiose. Che analisi è fuoriuscita da questa due giorni?

Ci sono stati moltissimi interventi, anche in una serie di tavole rotonde in contemporanea. In generale, ritengo che il principale risultato sia stato il fatto in sé, e cioè  che tanti esperti con formazione politica e culturale diversissima abbiano potuto confrontarsi direttamente su questi temi. Questo non sarebbe stato possibile nella maggior parte dei Paesi la cui popolazione ha in prevalenza tradizioni islamiche; non per tali tradizioni, ma per la chiusura dei regimi lì al potere. La grande ricchezza dell’Azerbaigian - più ancora delle risorse del sottosuolo - consiste a mio parere nella laicità dello Stato. Infatti, le differenze etniche e religiose causano violenza diffusa su larga scala (non solo episodica) in società tribali; ma in altri casi è esattamente l’impostazione dello Stato su un’interpretazione politica di una religione a costituire violenza. Importante anche la distinzione fra “tolleranza”, sulla quale direi che erano d’accordo tutti i partecipanti, e vero “rispetto”, che comporta un trattamento paritario di tutti da parte dello Stato, prescindendo completamente dalle idee di ciascun individuo sotto la sua giurisdizione.

La senatrice francese Nathalie Goulet, che ha partecipato al dibattito, ha dichiarato di essere soddisfatta dei lavori svolti, poiché confrontarsi con persone di diverse religioni provenienti sia dai Paesi del Golfo sia da zone di guerra che parlano tra loro con armonia, voglia di proposta e cambiamento è già di per sé un successo. Quale è invece la sua impressione?

Concordo, con la precisazione che c’erano persone, più che di diverse religioni, “di diverse opinioni in fatto di religione”, compresi quindi atei e agnostici. Fra l’altro, mi sono complimentato con la senatrice Goulet perché il suo intervento è stato fra i più originali e schietti. In un Forum di questo tipo, aperto da un discorso del Presidente della Repubblica dell’Azerbaigian, Ilham Aliyev, con personalità fra le quali il direttore generale dell’Unesco Irina Bokova e con tempi molto serrati, c’è la tendenza a svolgere interventi formali, di circostanza; lei è stata piuttosto decisa nel far capire che regimi che violano sistematicamente e gravemente i diritti umani devono non limitarsi a parlare di tolleranza, ma compiere progressi sostanziali.

Inevitabilmente il dibattito si è soffermato sul fenomeno dell’integralismo islamico. Si è cercato di avanzare proposte per contrastare il gruppo fondamentalista nigeriano Boko Haram che sta tentando di istituire uno Stato islamico in Africa Occidentale. Quali sono le analisi e le proposte che si sono avute?

Su questo argomento è intervenuto l’arcivescovo di Abuja, John Onaiyekan, secondo il quale Boko Haram non è che un piccolo gruppo di fanatici terroristi, mentre la grande maggioranza dei musulmani in Nigeria sono pacifici e privi di odio religioso. Contro l’integralismo sono sempre fattori fondamentali la conoscenza dell’“altro” e l’educazione al rispetto reciproco, anche attraverso scambi di studenti, circolazione di informazione non settaria ed elaborazione di valutazioni storiche condivise. Poi ci sono regioni che hanno problemi specifici, che non si possono certamente risolvere solo con le “buone pratiche”: centinaia di milioni di persone sopravvivono in condizioni di estrema povertà e necessitano di piani di sviluppo in molti settori, mentre in alcuni casi è la formula politica dei regimi al potere ad essere impostata sull’integralismo e sull’intolleranza.

Si è discusso anche del fenomeno Isis e della risposta occidentale che si dovrebbe dare. Emma Bonino, già ministro degli Esteri italiano, ha più volto sottolineato nel corso della controversia pubblica nel nostro Paese che la politica nazionale e internazionale non riesce ad affrontare il fenomeno poiché non sa e non vuole “leggere” le varie sfaccettature legate al mondo sunnita e agli Stati coinvolti. Che proposte ha partorito il Forum e quale potrebbe essere il ruolo delle Ong?

Il Forum non aveva il compito di avanzare proposte concrete sulla tragedia costituita dal cosiddetto Stato Islamico: dovrebbe essere il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ad avviare un’azione volta alla sua eliminazione da parte della comunità internazionale. Peraltro, ricordo che esiste già un vero Stato denominato “Repubblica Islamica”, la cui corsa all’arma atomica costituisce una minaccia gravissima – che dovrebbe essere fermata – per la regione e per il mondo. Il ruolo delle Ong, rispetto a tutto questo, dovrebbe essere a mio parere principalmente quello di fare pressioni sui governi e sulle istituzioni intergovernative affinché si esiga il rispetto assoluto dei diritti umani riconosciuti come universali, sia da parte degli Stati che da parte di gruppi che tengono sotto controllo di fatto alcune aree. Si intende che con alcuni è possibile un dialogo diplomatico e sono applicabili sanzioni economiche, con altri non c’è altra via che un’azione di polizia internazionale.

Quali sono i propositi per la quarta edizione?

La prossima edizione si svolgerà nel 2017 e rientrerà anch’essa nel “Decennio internazionale per l’avvicinamento delle culture” (2013-2022) proclamato dall’Unesco. L’idea di fondo è quella di contribuire a “rendere il mondo un luogo migliore in cui vivere” attraverso un dialogo che faciliti la mutua comprensione fra soggetti appartenenti a culture diverse, quindi penso che si continuerà su questa strada. La mia speranza è che fra due anni ci siano meno catastrofi umanitarie in corso e che la giusta attenzione alle culture collettive non elida la necessità che siano rispettati in primo luogo i diritti fondamentali degli individui, che – fra l’altro – devono essere liberi di scegliere se seguire le linee di una cultura nella quale è loro capitato di trovarsi per nascita o superarle, così come di contribuire all’evoluzione della società in cui si trovano senza rimanere prigionieri di forme del passato gradite a un regime.


di Domenico Letizia