Carceri: la sfida passa  dall’Informazione

Non è necessario agganciarsi ai tempi stretti della cronaca per parlare della condizione delle carceri italiane. Si tratta di uno di quegli argomenti che richiama l’ineludibile necessità, oltre che di interventi strutturali sul piano legislativo e giuridico, di un profondo cambiamento culturale e di approccio al tema della pena e della sua esecuzione. Al momento le aspettative si focalizzano tutte sull’iter parlamentare della delega dell’ordinamento penitenziario inserita nel disegno di legge sul processo penale, e sull’auspicio che il processo di riflessione avviato con gli Stati generali delle carceri non si riduca, dopo l’introduzione del fallimentare 35 ter, il cosiddetto rimedio risarcitorio interno, ad un altro, provvisorio escamotage per ammansire la Cedu e scongiurare la sanzione che pende ancora sul nostro Paese per violazione dell’articolo 3 della stessa Convenzione in materia di rispetto dei diritti umani nei penitenziari.

Il nostro Paese ha estrema urgenza di plasmare una nuova visione del sistema carcerario attento al recupero e alla riabilitazione dei condannati, così come, tra l’altro, è costituzionalmente stabilito. Ed è in virtù dell’urgenza di educare il consenso sociale all’importanza del ruolo del lavoro nei penitenziari che va considerata una piccola breccia la recente nascita del periodico “In corso d’Opera”, nato nel carcere di massima sicurezza di Opera ed a cui lavorano i detenuti. Quello di Opera-Bollate è un carcere modello, certo, una di quelle realtà atipiche nel panorama italiano della detenzione e perciò molto esposto ai rischi dell’esercizio retorico buonista e peloso delle sciarade da parte delle istituzioni. Una nuova rivista che vive all’interno delle mura penitenziarie, tuttavia, è sempre un’ottima notizia, un valido strumento per tenere viva la progettualità dei detenuti, un’opportunità rieducativa e di accrescimento nell’ambito del nostro disastroso sistema penale che decenni di disattenzione legata allo scarso ritorno elettorale ha lasciato incardinato sulla costrizione e su una privazione della libertà degradante.

Edita da Cisproject nell’ambito del progetto Leggere Libera-Mente, la rivista “In corso d’Opera” si va ad aggiungere alle altre già presenti in alcuni istituti di pena italiani ed è stata presentata in occasione del convegno organizzato recentemente dall’Ordine dei giornalisti della Lombardia al circolo della stampa di Milano e intitolato: “La carta di Milano, informazione oltre le sbarre”. Guidata dal giornalista Renzo Magosso che ne è direttore responsabile, dal direttore editoriale, la psicologa Barbara Rossi e dal coordinatore, Paolo Romagnoli, la rivista del carcere di Opera testimonia quanto si possa, si debba fare, per sradicare pregiudizi che inchiodano i penitenziari ad una funzione di mero accanimento e di vendetta e per offrire, a chi sta pagando il proprio debito con la giustizia e la società, la possibilità di ripensarsi e riprogettarsi. In occasioni come questa si materializza in un attimo il rischio di scivolare nella mistica o nella retorica del buonismo d’accatto e a scongiurarlo serve solo la riflessione sul senso profondo di alcune iniziative.

Consentire ai detenuti, a quelli di Opera - nel corso del convegno è stato consegnato loro un attestato che ne riconosce la qualifica di redattori - di creare più che una finestra, una porta scorrevole tra la realtà carceraria e il mondo esterno, non può che costituire una prova sul campo di esercizio dei diritti. Un piccolo tassello che fa compiere al sistema carcere un piccolo passo avanti. Se ne deve parlare. La politica, incapace di domare le istanze punitive di una magistratura che ha dilatato le sue prerogative anche all’interno del potere legislativo, sempre più spesso cavalca il sentimento diffuso nei confronti della dimensione carceraria e dell’esercizio della pena. È di queste pulsioni che si nutre il perverso e osmotico sodalizio tra informazione, magistratura ed esigenze di bilancio dei media che, spinti dall’obbligo di mercato a vendere alle aziende inserzioniste un pubblico sempre più vasto, si spingono oltre ogni limite, nel totale disprezzo di una progressiva perdita di credibilità, pur di fidelizzare una società che il clima di incertezze e di crisi rende sempre più ingorda di una giustizia etica e sempre meno attenta, nel suo esercizio, alla dimensione umana.

Due esempi di ciò che francamente non vorremmo mai ascoltare sono indicativi: le recenti esternazioni della Pm del tribunale di Lodi aggredita da una donna con un coltello, che ha risposto alla domanda di un giornalista sostenendo di occuparsi di fascicoli, non di persone. O la dimostrazione di aberrante ironia di cui, in occasione di un altro recente convegno di formazione organizzato dall’Ordine dei giornalisti sempre nel capoluogo lombardo, ha dato prova il procuratore capo di Milano, Edmondo Bruti Liberati, in riferimento ai rischi del processo mediatico dichiarando che “per difendersi dal cosiddetto doppio processo cerchiamo di farli condannare tutti in tempi brevi”.

In questo contesto, in cui le resistenze sono infinite e investono anche il mondo del giornalismo, il progetto portato avanti dai detenuti di Opera rappresenta dunque una tessera di un necessario cambio di paradigma che non investa solo le istituzioni ma anche lo spirito del tempo e che faccia del lavoro nel sistema carceri, oltre che delle misure alternative, lo strumento principale e l’opportunità per conciliare rispetto delle regole e legame con la collettività. Un altro periodico nato in un carcere rappresenta anche un saldo elemento di continuità con lo spirito che nel 2013 ha informato la stesura della Carta di Milano, il documento che ha preso vita con una prima bozza per impulso di tre giornali delle carceri di Bollate, di Verona e di Piacenza per rispondere all’esigenza di comunicare con l’esterno e di regolare deontologicamente il trattamento delle informazioni sui detenuti. In particolare nei delicati passaggi del reinserimento in società e di accesso alle misure alternative, facilmente liquidate come ritorno alla libertà, o sul piano della tutela dei detenuti in termini di diritto all’oblio che dovrebbe impedire di inchiodare un ex detenuto al reato commesso e soprattutto alle modalità con cui è stato trattato dai media. Che anche il cammino della Carta di Milano sia stato in salita non stupisce, incagliatosi più volte nelle resistenze opposte dell’Ordine nazionale a porre i necessari paletti alla trattazione di vicende di cronaca giudiziaria su cui vive la cultura punitiva delle inchieste e dei processi paralleli in televisione a sfondo colpevolista. L’informazione ha una straordinaria responsabilità nell’orientare l’opinione pubblica, che a sua volta “condiziona” le linee della politica. Ma fornire una descrizione fuorviante della realtà in materia di pretesa punitiva e di esecuzione della pena, assecondare il sentire di una collettività che ha tutte le ragioni di esasperazione ma le cui insicurezze alimentano un sentimento responsabile di ostacolare la riforma del sistema carcerario, contribuisce all’imbarbarimento della democrazia perché annichilisce la cultura dei diritti. È francamente troppo alto il prezzo pagato all’irresponsabilità dei media che latitano quando invece dovrebbero informare in modo continuativo che la Costituzione nell’articolo 27 non si limita a stabilire i confini dell’esercizio punitivo ma stabilisce le positive finalità di rieducazione e riabilitazione che il sistema penale deve avere nei confronti dei detenuti, nonostante le difficoltà e le incognite che le specifiche individualità possono creare nel recepimento del processo riabilitativo.

A tacitare le istanze estremiste e demagogiche in materia di esecuzione penale, d’altronde, sono i dati: siamo il Paese con maggior tasso di recidiva, ma la percentuale di chi torna a delinquere tra i detenuti che hanno scontato la pena in carcere in condizioni indegne e disumane è del 68 per cento e solo del 19 di coloro che sono stati ammessi a pene alternative o hanno beneficiato di attività all’interno degli istituti di pena. Perché i mezzi di informazione su questi dati sorvolano? Perché non si parla in termini di sfida virtuosa, delle cifre (risalenti al 30 aprile) sui 12.539 in affidamento in prova, dei 789 in semilibertà e dei 9.635 individui ai domiciliari come se queste alternative detentive fossero la vergogna del Paese? Possibile che non si prenda coscienza del fatto che la cattiva stampa non favorisce il processo di reinserimento e che questo finisce per esser mortificato, fallimentare? È evidente che il nostro Paese è di fronte alla necessità di una rivoluzione culturale che richiede tempi lunghi. Perché investe i cosiddetti “diritti difficili”, difficili da far metabolizzare ad una collettività sotto sbornia punitiva che si rifiuta di comprendere che, se si è costretti a vivere il carcere in condizioni ai limiti della tortura, non si possa materialmente ripensare il proprio passato né il proprio futuro con evidenti ricadute positive sulla collettività anche in termini di sicurezza. La sfida sul sistema di esecuzione della pena significa soprattutto fronteggiare le resistenze legate ad un diffuso sentimento responsabile di aver impedito finora, ammesso che vi sia mai stata anche soltanto una timida volontà politica e legislativa di farlo, una seria riforma.

La prospettiva di una perdita di consenso per la politica e di pubblico per gli organi di informazione ha avuto un ruolo spaventoso nello spingere gli uni e gli altri a recepire ed assecondare questo clima disinteressato ad interventi correttivi degli aspetti inumani della detenzione. È indicativa la scarsa attenzione mediatica prestata a quel tasso di sovraffollamento del 125 per cento nei penitenziari, appena timidamente avviato a rientrare nella norma del 109 per cento. Percentuali che avrebbero dovuto suscitare scandalo e allarme proprio da parte dell’informazione che troppo spesso, al contrario, sceglie il sensazionalismo dei “processi paralleli” buttandosi su una comunicazione distorta che imbocca le scorciatoie semantiche di formule liquidatorie sulle misure alternative come lo “Svuota carceri”.

Il tragitto sarà tutto di bolina, va però fatto. Rendendo trasparenti gli istituti di pena, dove i detenuti vengono inghiottiti in quel cono d’ombra in cui finiscono risucchiate anche paure e allarmi della società, ed in cui la demarcazione tra lo spazio puro della collettività e quello impuro, incivile e irrecuperabile giustifica la sospensione della dignità umana. Come tener ferma la barra del timone nel rapporto tra media e luogo di pena? Non scantonando ulteriormente una seria e responsabile riflessione sulla deriva mediatica che ha abdicato al ruolo dell’informazione per gettarsi sulla comunicazione, vorace di colpevoli e castighi pregustati. È su questo discrimine che si gioca la sfida sui diritti individuali e la partita di una democrazia.

A breve si saprà quali direttrici ed interventi legislativi, al di là degli sgravi fiscali previsti nel 2014 per le imprese che assumono detenuti, saranno indirizzati ad un complessivo incremento delle attività lavorative all’interno degli istituti di pena. E se la politica darà prova decisiva di un colpo di reni che argini il gorgo colpevolista e punitivo attivato da settori importanti della magistratura e condiviso dall’opinione pubblica e di cui l’attuale sistema carcerario è un vergognoso emblema. “In corso d’Opera”, come le altre riviste carcerarie, svolge un ruolo in fondamentale nel nuovo corso dei diritti che, in una democrazia degna di chiamarsi tale, devono essere assicurati in tutti gli istituti di pena colmando l’ignobile divario tra il limitato numero di prigioni di serie A e il resto degli istituti penitenziari che restano luoghi di tortura, di inumana sofferenza e conseguentemente “palestre” di ulteriore, futura delinquenza.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:34