Pensionati sotto tiro

È diventato di moda, nei talk-show televisivi, porre sotto tiro i pensionati, come se fossero la causa di tutti i mali della finanza pubblica. Vi sono anche parlamentari che cercano di costituirsi un credito politico, facendo della battaglia contro i pensionati di un certo livello un loro tratto distintivo. Nessuno, a proposito del lavoro attivo, distingue tra operai e dirigenti e, invece, per dividere i pensionati, si contrappongono quelli ricchi da quelli poveri, come se le pensioni di una certa cifra fossero un regalo e non il frutto di una vita lavorativa. Altra questione, continuamente ripetuta, è la liquidazione della pensione con il metodo retributivo anziché con quello contributivo. Il problema deve essere affrontato in maniera corretta.

La prima considerazione da fare è che il rapporto previdenziale è parte integrante del rapporto di lavoro. Ogni modifica unilaterale diventa, pertanto, un atto arbitrario e illegittimo. Una spiegazione dei trattamenti pensionistici con il metodo retributivo va cercata nelle basse retribuzioni. Facendo riferimento ai dipendenti pubblici, lo stipendio di un funzionario della carriera direttiva, negli Anni Sessanta, era più o meno di settantamila lire, lo stesso si dica per un professore di liceo. Calcolare la pensione per questi lavoratori con il contributivo era quasi come non darla. La storia della finanza pubblica è intessuta di ingiustizie e di innumerevoli sperequazioni. Quando Sandro Pertini era presidente della Camera dei deputati, alcuni dirigenti statali, avendo appreso delle retribuzioni di quella assemblea, scrissero provocatoriamente una lettera a Ugo La Malfa nella quale affermavano di non voler essere più dirigenti ma commessi parlamentari.

Se ne parlò ancora per un poco, ma poi tutto fu messo nel dimenticatoio. I veri privilegi sono in altri settori e non nelle pensioni liquidate con il metodo retributivo, anche moltissime di quelle medio-basse. Un deputato italiano guadagna molto di più di un suo collega della Germania. Vi fu, negli Anni Settanta, una commissione parlamentare per il disboscamento di quella che allora fu chiamata giungla retributiva, presieduta da Dionigi Coppo. Moltissime e grandi furono le sperequazioni rilevate, ma non si fece nulla per eliminarle. Fa specie vedere dei parlamentari spendersi quotidianamente contro le pensioni cosiddette d’oro e poi tacere sulle loro prebende trattate in maniera privilegiata anche fiscalmente, come se i cittadini non fossero tutti uguali dinanzi alla legge.

Il problema della finanza pubblica è generale e investe tutti i settori. Anche nell’obiettivo di risanamento, non si possono colpire singole categorie di cittadini, come quasi sempre, pensionati e dipendenti pubblici. Mancata rivalutazione delle pensioni o istituzione di un contributo di solidarietà sulle medesime significa, in buona sostanza, sottrarre risorse ad alcuni contribuenti, mentre provvedimenti di tal fatta devono essere presi nei confronti di tutti i cittadini. Praticare una corretta politica economico-finanziaria non significa solamente far di conto, ma apprestare sintesi di interessi nel rispetto dei principi sanciti dalla carta costituzionale. Questo dovrebbe intendere anche l’attuale presidente dell’Inps, Tito Boeri, il quale, nonostante le ripetute assicurazioni del presidente Matteo Renzi, non sembra desistere dal proposito di una manipolazione unilaterale del sistema pensionistico.

Quando si è coinvolti in una crisi come quella attuale non si possono non accettare i principi della più vasta solidarietà. Nel tema della finanza pubblica, però, il faro che deve guidare ogni scelta è, si ripete, la Carta Costituzione. Questo significa che tutti i cittadini devono essere trattati allo stesso modo in presenza delle medesime condizioni. Per i tanti improvvisati trattatisti della questione previdenziale, si riportano alcuni passaggi della sentenza 116 del 2013: “Questa corte ha già espressamente qualificato l’intervento di perequazione in questione (il contributo di solidarietà, ndr), come avente natura tributaria. La questione, come con la pronuncia n. 223 del 2012, va scrutinata in riferimento al contrasto con il principio dell′universalità dell′imposizione ed all′irragionevolezza della sua deroga, avendo riguardo, quindi, non tanto alla disparità di trattamento fra dipendenti o fra dipendenti e pensionati o fra pensionati e lavoratori autonomi od imprenditori, quanto piuttosto a quella tra cittadini”.

Da ultimo, non si può non parlare della sentenza della Consulta n. 70 del 2015. Questa dichiara la illegittimità costituzionale dell’art. 24, comma 25, del d.l. n. 201 del 2011, come convertito, laddove viene prevista la rivalutazione automatica, per gli anni 2012 e 2013, esclusivamente ai trattamenti pensionistici di importo complessivo fino a tre volte il minimo Inps, mentre le pensioni superiori a tre volte il minimo non ricevono alcuna rivalutazione. In virtù della decisione della Consulta, secondo anche il concorde parere di illustri giuristi, tutte le pensioni devono beneficiare della indicizzazione, e cioè quelle che ne sono state escluse. Il Governo, invece, limita la rivalutazione a una parte di pensionati. Viene in tal modo disattesa una decisione della corte costituzionale chiara e ineccepibile nelle sue motivazioni. Si sono perfino dovute registrare le critiche del ministro Pier Carlo Padoan, il quale ha affermato che la Consulta. nelle sue decisioni, deve tener conto delle compatibilità finanziarie, quando tutti gli atti, tutti i poteri devono assoluto rispetto alla Carta Costituzionale.

Da questo punto di vista, il presidente Matteo Renzi ha dimostrato più correttezza del suo ministro, quando ha dichiarato di rispettare le decisioni della Consulta. Tali decisioni meritano, però, un rispetto non solo formale, ma soprattutto sostanziale. Esse indicano la strada di una corretta legislazione e spesso tracciano i principi per un ordinato vivere civile.

Aggiornato il 06 aprile 2017 alle ore 14:49