La feroce vergogna dei trasferimenti penitenziari

Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha presentato a Strasburgo i risultati delle misure adottate dall’Italia per risolvere la situazione carceraria. Ha offerto dati rassicuranti e proiezioni di riforma e ha ottenuto il plauso del segretario generale del Consiglio d’Europa, Thorbjørn Jagland.

Il 29 maggio 2014, scaduto il termine concesso all’Italia per ripristinare condizioni minime di legalità nelle carceri, il giudizio espresso dalla Corte Europea è stato di “sospendere la pena” a fronte di una serie di impegni presi e di promesse fatte che avrebbero dovuto tradursi in risultati concreti e in una legislazione di urgenza di carattere risarcitorio cui dare tempestiva applicazione per coloro che, detenuti, avevano patito una reclusione lesiva della dignità umana e dei più elementari diritti.

Ad un anno di distanza, la Cedu si accontenta ancora delle promesse. I rimedi compensativi che avrebbero dovuto risarcire i ristretti in condizioni inumane attraverso la riduzione della pena ancora da espiare (un giorno in meno ogni dieci di tortura patita) ovvero, per chi era stato già scarcerato, attraverso un “equo” ristoro economico (ben otto euro per ogni giorno di patimenti e vessazioni), non sono mai stati attuati. Grandissima parte delle istanze dei detenuti è stata dichiarata inammissibile perché le richieste erano mal poste (verranno ripresentate intasando definitivamente i tribunali di sorveglianza già al collasso). Moltissime sono ancora in attesa di decisione.

E allora, come si è proceduto a tentare di riequilibrare la situazione di drammatico sovraffollamento delle carceri? Qualcosa ha fatto la sentenza della Corte Costituzionale che ha demolito la legge Fini-Giovanardi e comportato un numero notevole di scarcerazioni. Certamente utile è stato il rimedio della concessione, alle persone detenute che avevano mantenuto una buona condotta (non tutte, non quelle ristrette per i reati di cui all’articolo 4 bis O.P., quelle si possono torturare e non devono essere risarcite) di una riduzione di pena maggiore.

Ma il sistema più efficace probabilmente è stato spostare i detenuti su e giù per l’Italia. Immaginando uno schema dove ogni detenuto occupa un quadratino, è bastato riempire i quadratini prendendo Tizio da Sulmona e mettendolo a Massama, in Sardegna; Caio da Parma a Palmi; Sempronio da Padova a Sulmona, Filano da Genova a Spoleto e così via. L’articolo 27 della Costituzione, per troppo tempo rimasto inattuato, ha tuonato il ministro Orlando al Cnr, a Roma, promuovendo la legge delega che orienta il legislatore ad un superamento degli ostacoli normativi che rendono di fatto inattuabile, soprattutto per alcune categorie di detenuti, l’accesso a qualunque percorso di progressione trattamentale e di riabilitazione. Un sistema penitenziario “carcerogeno”, ha ribadito agli Stati Generali sul carcere, in presenza del presidente emerito Giorgio Napolitano con il suo monito: “Cambiare le coscienze!”. E allora? Che ne è di queste persone spostate dal sud al nord senza alcun rispetto delle loro vite? Dei loro percorsi? Delle loro storie? Dei loro traguardi? Dei loro passi faticosi per ricostruirsi ritagliando un nuovo sé attraverso i volti degli operatori intramurari, l’inserimento nelle opportunità offerte dal carcere? Senza alcun riguardo per le loro famiglie, le loro condizioni economiche, i loro sforzi, le loro esigenze di viaggio, le abitudini faticosamente conquistate negli anni? Spazi da riempire. Dove c’è un buco ne metti uno. Cose. Tutto qui.

E intanto Ornella Favero e la redazione di “Ristretti Orizzonti” conducono una battaglia scomoda e solitaria. La sezione di alta sicurezza di Padova sta per essere chiusa, smantellata. Vite, progetti, percorsi, opportunità, progressioni di cambiamento vengono spezzati, interrotti; i detenuti trasferiti qua e là per l’Italia dove tutto cambia, si azzera, muore e tutto deve ricominciare, da capo. Ci sono persone ristrette da più di vent’anni alla A.S. di Padova, le loro menti sono cambiate, sono proiettate alla vita. Molti di loro lavorano alla redazione di Ristretti Orizzonti, si confrontano tra di loro e con realtà esterne, studiano, scrivono, crescono, si “rieducano”. Non sono gli uomini che sono entrati in carcere moltissimi anni addietro, eppure restano marchiati dalla reclusione nelle sezioni di alta sicurezza. Se fossero “declassificati” potrebbero continuare a perseguire il loro progetto di crescita, a portare avanti il loro percorso di rivisitazione critica del sé. Continuerebbero da detenuti il loro cammino in sezioni di media sicurezza. Ma i loro reati sono reati di mafia, stimmate indelebili. È possibile per loro ambire alla rieducazione? La Costituzione lo pretende. Il ministro Orlando si è fatto portavoce di questa pretesa. Ma la realtà è un’altra. Le note degli organi interpellati dalle direzioni delle carceri per valutare la possibilità di declassificare persone ristrette in regimi di alta sicurezza si esauriscono in vacue formule di stile, che si traducono nella negazione della speranza: “Non è dato escludere l’attualità dei collegamenti con il sodalizio”; “considerata l’assenza di elementi certi da cui desumere l’allontanamento definitivo dalle organizzazioni criminali”; “non risultano elementi univoci comprovanti l’interruzione di rapporti”.

Nessun elemento reale, concreto e verificabile viene offerto che spieghi, al di là di una logica biecamente punitiva, la pericolosità attuale di tante persone alle quali, qualunque impegno profondano nel rinnovarsi, nessuna strada è offerta, nessuna ammenda è prospettata. Ci vuole coraggio ad abbattere il pregiudizio. Ci vuole una logica diversa che parta dall’uomo ed all’uomo sia proiettata, che scomponga la legge dei numeri e isoli una ad una le persone, ciascuna con il proprio vissuto, con la propria storia, con le proprie scelte, con le proprie consapevolezze, con i propri traguardi da raggiungere. Se avranno un nome, un volto, una sofferenza, una storia, sarà più difficile spostare i detenuti per riempire e svuotare caselle. E come uomini, forse, sarà loro riconosciuto il diritto di sapere perché, dopo lunghi anni di carcerazione, non è ammesso che siano cambiati, non è permesso che, passo dopo passo, siano restituiti alla società. “Non potranno mentire in eterno. Dovranno pur rispondere, prima o poi, alla ragione con la ragione, alle idee con le idee, al sentimento col sentimento. E allora taceranno: il loro castello di ricatti, di violenze, di menzogne crollerà” (Pier Paolo Pasolini).

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:23