Tsipras, il  referendum uno schiaffo alla democrazia

Sulla Grecia, ormai, si è detto tutto quello che si poteva dire. Anche sull'Europa, in verità, tutto è stato detto. E anche sulle banche, sui poteri occulti, sulla tirannia - vera o presunta - della Germania e dei burocrati di Bruxelles sono stati spesi fiumi di inchiostro.E siamo ancora a chiederci chi ed in quale misura ha ragione, a discettare sul diritto alla libertà del popolo greco e sulla validità del principio secondo il quale promissio boni viri est obligatio (insomma: i debiti si pagano). Non abbiamo fatto un solo passo avanti. Io resto della mia idea e spero che Tsipras non debba pentirsi della rovina in cui rischia di precipitare il suo popolo e altri continuano a ripetere che, in fin dei conti, questa Europa aveva bisogno di uno scossone, possibilmente forte.

Secondo il primo ministro della repubblica ellenica, democrazia impone che sia il popolo greco a scegliere se accettare o no le indicazioni europee in tema di risanamento dei conti pubblici. La logica di Tsipras è, ad un tempo, semplice e lineare: rimettere al legittimo titolare del potere di sovranità una decisione che riguarda indistintamente tutti i cittadini, dal primo all'ultimo. Mostrando un grande, ma solo apparente, rispetto per il fondamento della democrazia, il capo di un Governo legittimamente in carica, fa un passo indietro e dice: decidiamo tutti insieme; anzi: decidete voi, come ai tempi di Pericle. In un mondo davvero democratico, Tsipras sarebbe immediatamente destituito per manifesta incapacità e chiamato alla sbarra per rispondere politicamente del suo gesto.

Intanto, Tsipras dovrebbe sapere che la democrazia non si esaurisce nella consultazione popolare, ma rappresenta un sistema di governo complesso, articolato, nel quale le attribuzioni sono la vera garanzia di rispetto della volontà del popolo. È impensabile - anzi: è un inganno - che il popolo possa esprimersi su temi di cui non ha conoscenza completa. È pericoloso, poi, che il popolo possa direttamente intervenire sulle leggi di bilancio o che riguardano i conti pubblici e meno ancora la ratifica dei trattati internazionali. Da noi, tutto ciò è vietato dall'articolo 75 della Costituzione, che stabilisce con chiarezza quali siano le materie sottratte all'istituto referendario. Siamo meno democratici dei Greci? Al contrario: lo siamo di più, perché la Costituzione ci impedisce di condizionare scelte che riguardano l'intera comunità nazionale secondo i nostri piccoli interessi e in base al nostro egoismo.

Non a caso, per evitare che scatenino ritorsioni e vendette, non è dato referendum neppure sulle leggi di amnistia e indulto. Quel referendum, a conti fatti, è uno schiaffo alla democrazia: il Parlamento deve assumersi la responsabilità delle decisioni, senza scaricare il barile. Tsipras avrebbe sbagliato anche se il referendum, nelle sue intenzioni, avesse scopi meramente consultivi e non vincolanti. L'errore sarebbe quello in cui cadono i demagoghi, di destra e di sinistra: nascondersi dietro il popolo, anzi il poppolo, per mimetizzare meglio la propria inettitudine. Dio salvi i Greci da quell'incapace comunista. E protegga anche noi, che ne abbiamo bisogno. Quanto a noi, veniamo a noi. Vista la situazione, credo proprio che, di passi avanti, non ne faremo neanche nel prossimo futuro. Forse non ne faremo mai.

Ci serve una Costituzione. Invece di continuare a parlare del debito ellenico o della scelleratezza del suo governo, dovremmo interrogarci sulla assoluta inutilità della Carta di Lisbona, vero e proprio trattato di diritto bancario nel quale i diritti hanno un ruolo ancillare. La marginalità dei diritti degli uomini - non di questo o di quel popolo, catalogato secondo i criteri della nazionalità - è la prima causa di sperequazioni che generano risentimenti, invidie, rivalse, reciproche contestazioni. La scarsa incisività dei diritti sulle scelte governative, dettate esclusivamente da esigenze di bilancio, sovverte i canoni stessi della democrazia e, quel che è più grave, induce noi a rivedere l'area del non negoziabile. Intendiamoci: in un mondo che si regge sugli scambi, le regole economiche e finanziarie sono indispensabili.

Ma quelle regole, quegli scambi non hanno giustificazione alcuna se non diventano espressione dei principi di libertà, se non servono a conquistare o consolidare diritti, ovvero a proteggerli. Qui entra in gioco la Costituzione, strumento di difesa, limite al potere della Autorità e veicolo per l'attuazione dei diritti. Ci serve una Costituzione. Perché tutti abbiano consapevolezza dell'appartenenza ad una casa comune e, allo stesso tempo, accettino le imposizioni come strumenti di protezione e sviluppo, non di vessazione. Ci serve una Costituzione, che ci protegga dal potente di turno e ci faccia sentire tutti uguali in un quadro di libertà comune. Ci serve una Costituzione: breve, fatta di pochi, ma chiari, articoli, nei quali sono riconosciuti i diritti degli uomini e non i poteri dei governi o degli enti finanziari.

E ci serve un Governo vero, un Parlamento vero, che, come primo atto, aderisca alla Convenzione Europea dei diritti dell'Uomo e operi nel rispetto di quei principi. Domenica, i Greci voteranno. Io non so come andrà a finire e se il risultato del loro voto sarà il grimaldello per la distruzione di una Europa che non esiste. Ma, quale che sia l'esito della consultazione, noi non avremo fatto un solo passo avanti, fino a quando, stracciato il trattato di Lisbona, non ci saremo dati una Costituzione che consenta a me e a chiunque altro di dire: io sono europeo, io sono un cittadino. Non un suddito.

Aggiornato il 06 aprile 2017 alle ore 15:00