Il renzismo e il futuro del bipolarismo

Si ha la netta impressione che il ruolo del Premier Matteo Renzi si stia consolidando sempre di più come il leader naturale di un partito che mira a rappresentare gli interessi dell’Italia e delle sue classi dirigenti. Se si osserva quanto accade nella politica italiana, vi è un elemento che più di ogni altro colpisce: la crisi dell’assetto bipolare, in virtù del quale è stata assicurata la democrazia dell’alternanza durante il ventennio della Seconda Repubblica. Infatti a rafforzare il ruolo di Renzi e del suo partito sono i dati che si possono ricavare dai sondaggi per i quali il Movimento 5 Stelle, con il suo messaggio rivolto contro la politica tradizionale e intriso di un greve ed eversivo populismo, raccoglie tanti consensi divenendo il principale avversario del partito del Premier.

Questa constatazione offre la possibilità di capire che, visto che il M5S non può essere considerato una valida alternativa al Pd giacché non possiede la cultura per candidarsi al governo del Paese, Matteo Renzi è in questo momento in una posizione di vantaggio poiché nessuno è in grado di contendergli la guida del Governo. Come ha notato lucidamente Angelo Panebianco, in un suo editoriale apparso sul “Corriere della Sera”, questo scenario riproduce quanto accadde nella Prima Repubblica: la Dc era condannata a governare vista la presenza del Pci quale forza di opposizione, forza politica che non poteva competere per il governo del Paese.

Di fatto, la presenza del M5S, come secondo partito italiano, mette a rischio la democrazia dell’alternanza, che pure durante la Seconda Repubblica è stata sperimentata. È pur vero che si trattò di una democrazia dell’alternanza basata sulla sistematica delegittimazione dell’avversario, il berlusconismo opposto all’anti-berlusconismo, che di fatto non consentì un corretto funzionamento della vita democratica in Italia, ritardando e impedendo la realizzazione delle riforme strutturali necessarie per modernizzare il Paese.

Tuttavia l’attuale scenario, con il Premier privo di una reale alternativa di Governo, rischia di rendere impossibile il corretto e necessario funzionamento della democrazia dell’alternanza, che presuppone una dialettica tra due diversi schieramenti politici dissimili per ispirazione ideale e culturale.

Il populismo dei 5 Stelle, con il suo programma politico velleitario e poco credibile, rischia di far regredire il sistema politico italiano verso la democrazia bloccata e senza alternanza, che nella Prima Repubblica diede vita alla pratica deteriore della consociazione e fu all’origine della dilatazione della spesa e della formazione dello spropositato debito pubblico. Ma un altro aspetto, non meno importante e significativo, dell’attuale fase della vicenda politica, è stato colto da uno storico di valore come Ernesto Galli della Loggia sul “Corriere della Sera” di domenica scorsa. Infatti in questo momento si nota come l’orientamento delle élites italiane sia sempre più favorevole al Governo guidato da Renzi. Si tratta di uomini della finanza, del mondo degli affari e di quanti agiscono nella sfera pubblica, di chi aspira ad essere nominato per le proprie competenze in enti pubblici, e di quanti per ottenere i contratti e le commissioni pubbliche sono obbligati a intrattenere un rapporto con i vertici della politica italiana. Per le élites italiane Renzi rappresenta un punto di riferimento insostituibile e fondamentale.

Lo storico Galli della Loggia sostiene che l’atteggiamento delle élites, pronte a schierarsi con l’uomo politico in ascesa nella vita pubblica, ripropone un antico modello della storia italiana. Infatti, durante gli anni dell’unità nazionale, le élites, pur avendo intrattenuto rapporti e relazioni con il mondo politico, si tennero a distanza dai partiti. Secondo questa tesi storiografica, molto suggestiva e bene argomentata, si sono schierate sempre a favore del leader e mai del suo partito; questo è accaduto con Cavour, con Francesco Crispi, con Benito Mussolini, con Alcide De Gasperi, con Amintore Fanfani e con Giulio Andreotti lungo i diversi periodi che hanno segnato il percorso e la storia unitaria. Oggi le stesse élites si stanno schierando con Renzi, il quale abilmente afferma di voler accantonare la vecchia e desueta contrapposizione tra destra e sinistra, per incarnare con il suo partito, collocato al centro del sistema politico, l’interesse della Nazione. Tanto più appare credibile il Premier nell’interpretare questo ruolo, quanto più insiste nella sua dichiarata volontà di superare l’immobilismo che ha paralizzato la politica italiana per anni a causa del bipolarismo basato sulla delegittimazione dell’avversario. In ogni caso, evocare l’interesse nazionale proclamandosi in grado di rappresentarlo e difenderlo, come sta facendo Renzi al cospetto della pubblica opinione nazionale, non può cancellare del tutto la distinzione tra destra e sinistra e il fatto che il dibattito culturale avviene intorno a idee diverse, da cui discendono le diverse visioni generali su come governare un Paese occidentale e moderno. Ma a rendere difficile e complicato per il futuro il funzionamento della democrazia dell’alternanza vi è la confusione e lo smarrimento in cui sono precipitati i dirigenti del centro destra.

Il Presidente Silvio Berlusconi viene oramai visto come una reliquia del passato da venerare con sentimenti di rispetto e gratitudine dal mondo moderato e liberale. Proprio in questi giorni la formazione politica costituita da Denis Verdini, designata con l’espressione Liberal-popolare, sta accogliendo i senatori e i deputati in fuga da Forza Italia, un partito che dà l’impressione, malgrado le recente apparizioni di Berlusconi, di essere in procinto di dissolversi.

Ci si chiede chi potrebbe assumere il ruolo di leader nel mondo moderato e in quello di centro destra. La Lega di Matteo Salvini, che si sta trasformando da partito regionale a partito nazionale, propone una narrazione accattivante e seducente basata su messaggi populisti che hanno una chiara intonazione xenofoba. Pur essendo abile nel colpire e accendere la fantasia e l’immaginazione degli elettori del centrodestra di un tempo. La Lega sembra imprigionata dentro lo schema populista, sicché individua un nemico negli immigrati e propone una politica volta a rafforzare la sicurezza dei cittadini. Tuttavia nel linguaggio e nella proposta politica di Salvini è assente ogni riferimento alla cultura di governo e ai valori liberali. Giorgia Meloni, che fa riferimento ad un patrimonio ideale e culturale legato alla destra post missina, insiste sul ruolo che lo Stato deve avere nella vita pubblica e in quella economica, sull’azione che l’Italia è chiamata a dispiegare sulla scena internazionale per difendere l’interesse del Paese e sulla necessità di preservare i valori che appartengono alla tradizione conservatrice della destra cattolica italiana. Malgrado questo, la Meloni rimane confinata in un ghetto angusto e poco attraente.

Fra i politici che si contendono la leadership del centrodestra e del mondo liberale e moderato, Raffaele Fitto, che pure ha raccolto nel meridione molti consensi per la sua formazione e il suo linguaggio, è l’unico che pare essere in sintonia con i temi e le proposte sostenute da quanti in passato s’identificarono con l’avventura di Berlusconi. Infatti la riforma liberale dello Stato, per renderlo leggero e rispettoso dell’autonomia dell’individuo, l’idea di ridurre il carico fiscale sulle imprese e le famiglie, la riforma di un Welfare oggi divenuto insostenibile per i suo altissimi costi, sono temi presenti nella narrazione che Fitto sta diffondendo per accreditarsi come l’unico uomo politico in grado di ricostruire il centrodestra italiano.

È fondamentale che nel nostro Paese vi sia un centrodestra competitivo e liberale, sia per garantire la democrazia dell’alternanza, che costituisce la regola aurea della democrazia liberale, sia per arginare e sconfiggere le forze politiche, depositarie di una visione populista incompatibile con l’interesse nazionale.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:30