La legge emergenziale  serve solo ai giudici

In Italia le leggi emergenziali ci sono già: ha ragione Arturo Diaconale (Il Giornale del 19 novembre). Ma queste leggi danno potere alla magistratura, che ha sottratto al Parlamento e al Governo la “politica criminale”, come denunciano da anni Marco Pannella e qualche isolato giurista. Ironia della sorte, la storia risale alla riforma procedurale “garantista” degli anni Novanta, boicottata nelle Aule e anestetizzata dalla Corte costituzionale. Così, oggi il dominus dell’attività repressiva dello Stato, e non solo del processo, è il pubblico ministero. Il che è in netta controtendenza con quanto accade in tutti gli altri Paesi, specie dopo l’aggravarsi della minaccia jihadista internazionale.

Già le inchieste parlamentari americane sulla “intelligence failure” dell’11 settembre 2001 misero in risalto i pericolosi limiti dell’interpretazione del terrorismo come fenomeno da perseguire in chiave esclusivamente giudiziaria (sotto accusa era, tra gli altri, l’Fbi, che cercava soprattutto persone da “incriminare”). Oggi è fin troppo chiaro come la lotta al terrorismo (leggi anche: la “protezione” della democrazia) sia questione essenzialmente “politica”: essa richiede una cabina di regia responsabile per la definizione dei target, in considerazione anche del fatto che il nemico utilizza una sintassi operativa e comunicativa eccentrica rispetto ai nostri sistemi giuridici e securitari. Esemplificando, non si tratta tanto di portare in un’aula di tribunale chi compie o si appresta a compiere il reato (sai che paura per i kamikaze), ma di coordinare attività di intelligence, politica estera e politiche sociali per evitare che il reato abbia luogo. Certo, come insegna l’esperienza anglo-americana, per fare questo senza mandare gambe all’aria i nostri principi costituzionali, hai bisogno, essenzialmente, di due cose: un forte sistema di garanzie, con un sistema giudiziario imperniato sui diritti della persona e sull’assoluta terzietà del giudice (non del pubblico ministero, che è “parte” in causa); un sistema parlamentare forte ed efficiente, che sappia decidere in fretta, riconoscendo un ruolo determinante all’opposizione, specie quando si tratta di questioni inerenti alla libertà e alla sicurezza.

Su questo fronte siamo indietro. All’Italia manca persino un’organica disciplina dello stato d’eccezione, che è invece comune a tante democrazie (vedi Francia, Germania o Regno Unito). Il che, di questi tempi, si rivela piuttosto rischioso. In una situazione grave (ci asteniamo da esempi), saremmo probabilmente costretti a ricorrere alla combinazione tra la decretazione d’urgenza, una precaria deliberazione dello Stato di guerra e una serie di norme risalenti al periodo fascista, mai abrogate e in parte suscettibili di bocciatura da parte della Corte costituzionale. Un bel caos. Il disegno di legge di riforma costituzionale all’esame del Parlamento, in pratica, ignora il problema (v. l’audizione di Giuseppe de Vergottini al Senato, lo scorso 3 agosto). Peccato, perché la riforma costituzionale è la sede naturale per affrontare questioni di tale portata. Ma questo è un altro discorso.

 

(*) Professore di Diritto comparato all’Università Kore di Enna

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:35