Dal Sud una storia di ordinaria ingiustizia

sabato 28 novembre 2015


Vent’anni fa il porto di Gioia Tauro non esisteva. I lavori cominciarono a metà dell’ultimo decennio dello scorso secolo, e in pochi anni quel porto divenne il più grande terminale del Mediterraneo: già nel 1998 spostava più di due milioni di container.

Oggi il complesso portuale, di rilevanza internazionale, è dotato di infrastrutture e mezzi che consentono di accogliere le navi transoceaniche in transito nel Mediterraneo e sono in grado di movimentare qualsiasi categoria merceologica. Il Terminal dispone di vasti piazzali e di lunghe banchine operative per lo stoccaggio e il movimento dei containers; è dotato di numerose gru di banchina e di piazzale, di vasti spazi per le auto ed ha anche un ampio centro tecnico attrezzato per i servizi. Risiede nell’area la cooperativa piloti, e per il servizio di rimorchio sono impiegati i più moderni rimorchiatori.

Il porto di Gioia Tauro è attualmente l’unica infrastruttura portuale di transhipment del bacino del Mediterraneo: il 95 per cento del traffico si svolge in mare, mediante il trasbordo da nave a nave, e solo un 5 per cento del traffico totale si dirige via terra verso l’interno. Il traffico in mare ha destinazioni varie: per il 12 per cento diretto ad altri porti italiani, mentre il resto parte per varie destinazioni non soltanto in Mediterraneo ma anche verso altri porti extra-europei A causa della insufficienza delle vie di comunicazione ferroviaria per il trasporto delle merci destinate a terra, e per la lontananza dei tre scali aerei (Lamezia a circa 80 km, Reggio Calabria a 60 e Crotone a 160 chilometri) assunsero ben presto grande importanza i locali di stoccaggio e conservazione delle merci.

Come era fatale, trattandosi di una realtà complessa ed in prevedibile crescita, fin dalla nascita il porto di Gioia Tauro fu sotto il controllo delle “famiglie” dedite all’importazione e al traffico di droga, di merci contraffatte, di armi illegali. Tuttavia, benché fosse universalmente noto il dominio della ‘ndrangheta sulle attività portuali, alcuni imprenditori iniziarono attività perfettamente legali, del tutto lontane dai traffici criminosi. Uno fra questi, che non proveniva dal mondo marittimo o portuale ma dal mondo delle lettere, uno scrittore e poeta, (il che forse delinea una certa dose di fiduciosa ingenuità) nel 2005 ebbe l’idea di affittare in un primo tempo - e più tardi acquistare ed ampliare - un capannone per lo stoccaggio di merci, concedendone l’uso in affitto a terzi. Per la nostra storia chiamiamolo solo con le iniziali MC, poiché la vicenda giudiziaria che lo coinvolge è ancora in corso.

Dunque MC, impiegando tutti i risparmi di una vita, acquista il capannone, ne affida la custodia e l’operatività immediata ad un suo uomo ritenuto di fiducia, e torna a dedicarsi alle attività artistiche che più gli sono congeniali. Unica sua preoccupazione, in quanto amministratore di questa società di magazzinaggio e noleggio spazi, in cui trovano impiego una cinquantina di persone fra dipendenti e lavoratori esterni, è quella di assicurarsi che tutti i pagamenti relativi all’affitto delle varie parti del capannone avvengano con regolare fatturazione, e che i libri contabili vengano aggiornati puntualmente.

Passano gli anni, e tutto sembra poter procedere senza problemi all’infinito, quando in una torrida giornata di luglio del 2012 un’ispezione della Guardia di finanza rinviene nel capannone merce di origine truffaldina. Vengono posti sotto sequestro i pc della società, i supporti informatici e il telefono cellulare di MC; il custode si trasforma immediatamente in accusatore, e indica come unico responsabile della irregolarità il suo datore di lavoro. Questi viene incriminato e quasi un anno dopo, nel maggio 2013, viene arrestato per associazione a delinquere finalizzata alla truffa.

La difesa di MC ha una carta importante da giocare: i risultati dei rilievi effettuati dal Perito nominato dal Tribunale sui supporti informatici, sui pc e sul cellulare. Il rapporto, depositato dal Perito solo a settembre, afferma che “nessuna attività collegabile alle truffe effettuate” è stata rilevata.

È la prova che MC non è mai stato al corrente della irregolarità delle merci, stivate in un piccolo spazio del capannone, e che questo spazio è stato concesso in affitto ad altri, con emissione di regolari fatture, che risultano descritte nei registri Iva verificati dalla stessa Guardia di Finanza.

La difesa di MC rivolge istanza al Tribunale del riesame, che notoriamente è deputato al controllo (non solo di legittimità ma anche di merito) sui provvedimenti restrittivi della libertà personale. Infatti, nell’agosto del 2013, il Tribunale del riesame concede a MC gli arresti domiciliari.

Passano solo tre mesi, e all’inizio di dicembre viene emesso un nuovo mandato di cattura: l’associazione a delinquere della prima accusa è stata aggravata con l’imputazione della finalità mafiosa. Nel frattempo, in altri capannoni della zona viene rinvenuta la stessa merce truffaldina, in quantità molto superiori a quella trovata nel capannone di MC: complessivamente la merce irregolare ha un valore di oltre un milione di euro, mentre la parte contestata al nostro ammonta ad un valore inferiore a 50mila euro.

Una delle persone che - secondo i magistrati - sarebbero implicate nella truffa in correità con MC decide a questo punto di collaborare e rilascia dichiarazioni, confermate da una serie di intercettazioni in carcere. Il pentito dichiara che MC non ha a che vedere con l’organizzazione dell’operazione truffaldina, ma fa anche di più: rivela che il complice per la truffa nel capannone che appartiene ad MC è proprio quel custode accusatore che si occupava della consegna ai clienti ricettatori e ad ogni movimento riceveva una “mazzetta”, un compenso in contanti.

Anche sulla base di queste nuove acquisizioni, la difesa di MC presenta un’altra istanza al Tribunale del riesame: ne segue altra concessione di arresti domiciliari, nel dicembre 2013.

Meno di due mesi dopo, nel febbraio 2014, viene emesso un nuovo mandato di cattura: questa volta per associazione a delinquere con la finalità di truffa allo Stato; il riferimento è alla Legge 488 del ‘92, che riguarda le agevolazioni erogate dallo Stato nei confronti delle attività produttive in aree depresse del Paese.

A questo punto verrebbe spontaneo pensare ad una sorta di ostinato accanimento contro il nostro MC, ma questo sospetto è prematuro, perché c’è dell’altro. Neppure un mese dopo, in marzo, vengono arrestate altre persone: la sorella di MC, la sua ex moglie, la sorella di lei, ed un ispettore di polizia. L’imputazione è di aver minacciato un testimone, e precisamente il custode accusatore di MC, allo scopo di indurlo a ritrattare le accuse.

Le tre donne restano agli arresti domiciliari per un mese, poi –grazie alla casuale registrazione della conversazione “minacciosa” in un cellulare rimasto con la comunicazione aperta - il Tribunale del riesame acquisisce la prova che l’accusa di minacce è infondata, ed annulla il provvedimento, mentre l’ispettore di Polizia viene sospeso dal servizio. Libere le tre donne, MC resta in carcere per un anno intero, fino al febbraio 2015, quando nuovamente il Tribunale del riesame gli concede la detenzione domiciliare.

Nella sentenza di primo grado MC viene condannato a tre anni e mezzo di carcere; con la nuova imputazione di truffa allo Stato vengono aggiunti altri nove mesi. Per buona misura si include nella sentenza anche il reato di concorso in bancarotta. Questa imputazione era stata richiesta dal Pubblico ministero, successivamente esclusa dal Giudice delle indagini preliminari per assoluta mancanza di indizi, poi riattivata dal Giudice dell’udienza preliminare. L’oggetto dell’imputazione è una ditta individuale intestata alla ex moglie di MC (separata legalmente da lui da oltre dieci anni) per un fallimento avvenuto nel 2010.

Le più recenti notizie che si hanno risalgono al luglio 2015, allorché il collaboratore di giustizia che aveva già scagionato MC nelle deposizioni precedenti, interrogato dalla difesa ribadisce che il giro d’affari di cui egli stesso faceva parte era totalmente ignoto ad MC, un onest’uomo che non fa parte di alcuna organizzazione delinquenziale o di famiglie della ‘ndrangheta.

Ogni giorno i quotidiani riportano storie dolorose sulle carceri italiane. Le condizioni della detenzione sono tali da esser definite indegne di un Paese civile, e la Corte Europea dei diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia più volte, anno dopo anno, per “trattamenti inumani e degradanti” nei luoghi di detenzione (articolo 3 della Convenzione) e per la durata “irragionevole” dei processi (articolo 6 della Convenzione).

In carcere i suicidi si susseguono, non solo fra i detenuti ma anche fra il personale di custodia, oppresso da orari di lavoro gravosi e dalle difficoltà connesse con l’eccessivo affollamento dei luoghi di pena. Nonostante l’assidua attività dei Radicali e di associazioni umanitarie, ad onta di un solenne messaggio alle Camere da parte del Presidente emerito Giorgio Napolitano durante il suo mandato, Governo e Parlamento non prendono i provvedimenti di riforma che davvero risolverebbero la complessità dei problemi.

Di fronte a tale situazione, il caso dell’uomo che abbiamo convenuto di definire con le sole iniziali sembra di poco momento: qualcuno potrebbe ironizzare, raccontandolo come un conflitto, un caso di esercitazione competitiva fra vari magistrati. Tuttavia, per rispetto dei diritti umani, ci si chiede: è consentito ad un cittadino onesto, che non ha mai neppur sfiorato un articolo di codice, definire questa come una storia di persecuzione giudiziaria? E se non è consentito parlare di persecuzione, come è possibile definirla?


di Laura Arconti