Giustizia: meno male  che c’è l’appello

Ogni qual volta il Giudice di appello riforma una sentenza di condanna in primo grado, riprende vigore sulla stampa la singolare polemica, intrisa di malinteso giustizialismo, sull’esercizio della giurisdizione, culminante nell’auspicio della trasformazione del giudizio d’appello in una circostanza del tutto eccezionale.

In altri termini, lo strumento essenziale di garanzia (in ogni tipo di giudizio, sia penale, sia civile, sia amministrativo), costituito da un secondo grado di merito, comporterebbe una sorta di deresponsabilizzazione dei giudici di primo grado e lo sconcerto dell’opinione pubblica per decisioni contrastanti.

La predetta ricostruzione non solo non è condivisibile, ma è anche pericolosa. In primo luogo, la stessa previsione di un giudizio di appello, storicamente assicurato in tutti i Paesi civili, implica un approfondimento ed una rimeditazione delle risultanze del primo grado, alla luce delle critiche e delle obiezioni formulate dall’appellante.

Ciò comporta, normalmente, una valutazione delle prove e del caso sottoposto alla giurisdizione, più sicura e, spesso, operata con maggiore saggezza e cognizione. Ne consegue la riconduzione a giustizia dell’esito processuale, che l’inesperienza di giudici di primo grado non ha raggiunto. Non ci si deve stupire se proliferano le impugnazioni; molto spesso esse sono provocate non da intenti dilatori delle parti, che il giudice ha il dovere di sanzionare, ma da errori contenuti nelle prime sentenze, purtroppo non sempre rimediati.

L’appello, pertanto, costituisce l’unico mezzo a disposizione delle parti, per evitare l’arbitrio del giudice. In secondo luogo, l’opinione pubblica dovrebbe essere informata su tale stato di cose e non avrebbe allora alcun motivo di stupirsi per il ribaltamento di una sentenza in appello, ma proverebbe un senso di attenzione e di fiducia nei confronti dell’impugnazione, tesa a raggiungere l’auspicato risultato di giustizia. Da ultimo, ma non in ordine di importanza, è opinione tanto diffusa quanto infondata, quella che afferma l’inesistenza di una garanzia costituzionale del grado di appello. La stessa presunzione di non colpevolezza (o di innocenza) “sino alla condanna definitiva” (art. 27 Cost.) e la correlata garanzia del diritto “inviolabile” di difesa “in ogni stato e grado del procedimento” (art. 24 Cost.) implicano necessariamente un secondo grado di merito, essendo riservato il giudizio di Cassazione alla sola “violazione di legge” (art. 111 Cost.).

Lo stesso concetto di “condanna definitiva” non può che esigere una rivalutazione nel merito, poiché, altrimenti, il delicato apprezzamento di quest’ultimo sarebbe opera di un solo giudice, con conseguente irrimediabilità degli errori. Il suo convincimento sarebbe, per definizione, definitivo e non avrebbe pertanto alcun senso tale qualificazione costituzionale, che trasforma l’imputato in condannato. La circostanza, invece, che la Costituzione la esprima dimostra l’ineludibile necessità e garanzia del giudizio di appello.

Il secondo grado è riconosciuto anche per la giustizia amministrativa (artt. 113 e 125 Cost.) e sarebbe, pertanto, del tutto illogica ed irragionevole una sua esclusione per la giurisdizione ordinaria. La Carta fondamentale presuppone il grado d’appello, considerandolo scontato, proprio in ragione della lunga tradizione e della natura garantistica, che, da sempre, lo connotano. È bene pertanto affidarci, ancora una volta, alla Costituzione e ricordare che lo sconcerto dell’opinione pubblica non è per l’appello, ma per le decisioni ingiuste, ossia per la denegata giustizia.

 

(*) Docente di Diritto Costituzionale e di Diritto Regionale nelle Università di Genova e Urbino

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:28