Giustizia: è di partito, al di là di ogni dubbio

mercoledì 2 dicembre 2015


In questi ultimi giorni ho avuto modo di ritornare su due casi giudiziari riguardanti due uomini politici, presidenti di Regione, condannati in tempi diversi, secondo uno stesso “modulo”: la “giustizia di lotta”. Che, poi potrebbe benissimo essere considerata “giustizia di parte” o meglio, giustizia di partito, espressione politica del “Partito dei Magistrati”. In tutti e due i casi imputazioni, sentenze, prove sono stati esaminati, studiati, sezionati, oltre che dalla solita schiera dei pennivendoli osannanti l’”acume”, la “lucidità”, l’”indipendenza” etc. etc. di P.M. e magistrati vari autori di ognuno di quei capolavori, anche da giuristi tutt’altro che osannanti, anche se, per lo più assai più preoccupati di non venir meno ad una salutare timidezza che ad esprimere compiutamente il proprio pensiero. Ma una cosa è certa: nelle sentenze, come nelle apologie e critiche di esse, le “prove” sono fondate su elucubrazioni che, nei migliori dei casi, si risolvono nell’”altissima probabilità” dell’assunto accusatorio.

Non ho qui né la possibilità né la voglia di passare in rassegna questo “genere” di prove, di critiche e di farne una mia valutazione o di esporre quella di altri che non hanno condiviso e non condividono quella dei magistrati. Né mai mi sognerei di affermare che per i reati addebitati ai “politici”, ed in particolare ai due presidenti del cui caso ho avuto modo recentemente di occuparmi, non possa essere utilizzata la “prova logica”. La questione è un’altra. Logica, storica, scientifica o di qualsiasi altro genere, la prova, non solo per i presidenti di Regione, per i “politici”, per gli incensurati come per i pregiudicati deve essere assolutamente tranquillante, imporre piena certezza del fatto, escludere il minimo margine di dubbio. Un magistrato può ritenersi dotato di un formidabile “intuito” (come diceva di sé Di Matteo deponendo come teste nel Borsellino quater) ma 2 non può supplire con la sua personale più o meno “magica” convinzione, il minimo “vuoto” probatorio. Non sono io a dirlo. Nel 2006, una aggiunta al testo dell’art. 533 c.p.p. 1° comma, ha inserito alcune parole (che descrivono le condizione perché sia pronunziata una sentenza di condanna dell’imputato se questi risulti colpevole. Quelle parole sono: “al di là di ogni ragionevole dubbio”.

Espressione presa dal linguaggio giudiziario dei Paesi Anglosassoni (art. 5 Legge 20 febbraio 2006 n. 46). Quella innovazione legislativa avrebbe dovuto comportare un autentico terremoto nelle prassi giudiziarie del nostro Paese. Avrebbe dovuto ridursi il numero delle sentenze di condanna. Condanne irrogate in primo grado avrebbero dovuto essere capovolte in appello. Altre annullate in Cassazione. Perché altrimenti quella nuova legge, quella nuova formula? Le leggi si fanno, si modificano, si integrano perché ne cambino gli effetti e le conseguenze, perché comportino qualcosa di diverso. E’ cambiato qualcosa con quell’art. 5 L. 20.2.2006 n. 46? Manco per sogno. Nessuno, si può dire, ha notato il minimo cambiamento. Nessuno se n’è accorto.

Ed allora bisogna dire che quella “novità” era la classica “bufala”, una delle tantissime prese in giro della gente con le quali i legislatori si trastullano. Ma è anche vero che se il legislatore ha ritenuto di dover ingannare la gente con quell’espediente, ha riconosciuto che i magistrati, fino ad allora (e poi anche in seguito, visto che poi niente è cambiato) condannano in base ad un giudizio, nel migliore dei casi, di mera probabilità e che dei dubbi, ancorché ragionevoli (e talvolta persino delle certezze) se ne infischiano altamente e non perdono il sonno per il tormento che loro ne derivi. Quando addirittura non si compiacciono del fatto di aver 3 messo da parte certe “sottigliezze” e di aver indotto i loro colleghi a passarci sopra. Magari per ottenere “risultati” della lotta del loro partito. Il Partito dei Magistrati. Se oggi qualcosa è veramente “al di là di ogni ragionevole dubbio” è che la giustizia è “cosa loro”. Del Partito dei Magistrati.


di Mauro Mellini