Sì, ma quante sono   queste coppie gay?

Dico subito che qualcuno che mi leggerà griderà allo scandalo. Sarebbe infatti uno scandalo affermare che qualcosa che possa e debba essere definito un diritto civile sia riconosciuto e tutelato come tale, o meno, a seconda che a rivendicarlo siano tanti o pochi. Rivendicarlo come diritto proprio, non come diritto degli altri. Che è cosa ottima in ordine a tutti i diritti civili, purché siano tali per le persone alle quali, essendo negato, si voglia riconoscerlo.

Dico questo perché, mentre sono convinto che il diritto alla sessualità non può essere negato a nessuno con il pretesto che si tratti di una sessualità “abnorme”, “quindi” “contro natura”, ritengo invece che un criterio almeno in parte diverso deve essere osservato per ciò che attiene la scelta e l’adozione di istituzioni che, per quanto connesse ad espressioni e derivazioni della sessualità, non sono espressioni dirette della libertà individuale relativa.

Detto questo, e detto che io intendo anzitutto porre il problema, ché la risoluzione non può (o non dovrebbe) intervenire se non dopo che, accolto il principio, se ne studiassero le effettive condizioni che esso presuppone, passo al resto. L’interrogativo cui mi sembra si eviti accuratamente di rispondere, così che, in mezzo al gran parlare (spesso a vanvera) che si fa sulle cosiddette “unioni civili” tra omossessuali e sulla facoltà dei “civilmente uniti di adottare minori”, non ho mai inteso far riferimento, sia pure per escluderne la rilevanza, ad un elemento che irrilevante non è affatto.

Quante sono le coppie omosessuali stabili, contratte nella prospettiva di una scelta definitiva di vita comune?

Devo dire che, avendo, almeno fino a qualche tempo fa, avuto occasione di venire a contatto con ambienti diversi, di città e di campagna, di regioni diverse d’Italia, esercitando una professione ed avendo ruoli 2 politici e sociali che importano di dover essere talora informato anche di situazioni non evidenziate e manifeste, mentre, ovviamente, mi è capitato di conoscere soggetti riconosciuti come omosessuali e che si dichiaravano tali, ho conosciuto un solo caso in cui una certa coppia di omosessuali (donne) mi veniva indicata come “stabile”.

Ho provato negli ultimi tempi ad interpellare persone giovani, considerando che questa mia percezione di una limitatissima entità numerica del fenomeno potesse essere dovuta al fatto che oramai (non da poco) sono da considerare “un uomo d’altri tempi”. La risposta ottenuta non è stata molto diversa dalle mie personali osservazioni. Questo, naturalmente, non basta a poter affermare che “le coppie omosessuali stabili” non esistono o sono poche. Ma è più che sufficiente, una volta che debbono essere affrontati problemi, ripeto, non di libertà, ma di organizzazione sociale che riguardano la questione, per dover affrontare una rilevazione di tale entità, che sia abbastanza attendibile.

Ciò detto debbo esprimere quel che mi sembra dover cogliere nel modo in cui la questione è, invece, posta (e da chi è posta). Si direbbe che voler riconoscere agli omosessuali la facoltà di contrarre matrimonio fra loro, di creare un “quasi matrimonio” ed una “analogia della paternità e maternità” a misura delle loro (libere in sé) inclinazioni sessuali, sia un modo con il quale la società nostra, cioè quella definibile, se non altro in considerazione del suo passato, Cristiana, cerca di farsi perdonare gli orrori della persecuzione di cui in passato si è macchiata nei confronti del “vizio nefando”, dei roghi sui quali ha bruciato i “rei” (o, come poi spesso avviene, presunti tali) di omosessualità. E, in epoca meno lontana, la persecuzione sociale, il “marchio d’infamia” e l’esecrazione dell’omosessualità e degli omosessuali, praticamente emarginati e maltollerati in ogni ambiente sociale.

Questa persecuzione è stata (e, per quanto ne rimane, se non altro in altri paesi, è) espressione di una più generale condanna religiosa e civile (e 3 ipocrita) del sesso “etero”. Una condanna che ha trovato un limite nella “legittimazione del sesso” attraverso il matrimonio e nella procreazione. La mia impressione è che gli omosessuali insorgano oggi a chiedere un “loro” matrimonio (tale essendo, a metà almeno, la cosiddetta “unione civile”) e una genitorialità “legali”, perché si sentono insicuri della loro identità sessuale, della (recente) libertà di manifestarla, insicuri, ed è cosa grave per tutti, della fine effettiva della persecuzione. Vogliono una “legittimazione” (che non è affatto necessaria alla libertà) attraverso il “quasi matrimonio”, come un tempo la sessualità ebbe sulla legittimazione sempre riconosciutagli solo nel matrimonio, modo di evitare una sua completa “demonizzazione”.

Questo, naturalmente, vale per gli omosessuali, anche quelli che non hanno alcuna unione stabile da “legittimare”. Non vale, o vale assai meno per tutti gli altri, quelli che, in nome dei diritti civili (che, lo ripeto, non sono in giuoco in questa questione e dei quali, magari, assai poco si sono curati e si curano quando sono realmente da tutelare) invocano per i gay le “unioni civili” ed il diritto all’adozione senza porsi il problema di dove siano, quanti siano quelli che concretamente dovrebbero essere considerati i soggetti implicati in un nuovo assetto di entità sociali.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 21:50