L’Italia dimentica   il “giorno del ricordo”

Ieri, 10 febbraio, è stato il “giorno del ricordo” del sacrificio degli italiani giuliano-dalmati massacrati nelle foibe. Peccato che pochi se ne siano accorti. Qualcuno direbbe che oggi ci sia ben altro a cui pensare: c’è Sanremo. Canzonette contro memoria, non c’è partita: vincono le canzonette. Il fatto che, a distanza di oltre settant’anni, si desideri riparlare di ciò che accadde ai confini orientali d’Italia tra il 1943 e il 1946, non va giù a quelli del politicamente corretto.

Si preferirebbe che la ricorrenza restasse una festicciola in famiglia tra i superstiti e gli eredi di quel genocidio e di quella diaspora. Ricordare è scomodo in un paese malato di memoria corta. Andare con la mente a quel che accadde nei territori italiani dell’Istria, della Dalmazia, di Pola richiama non soltanto la ferocia vile e assassina delle soldataglie comuniste di Josip Broz “Tito”, ma anche le responsabilità delle potenze alleate che tacquero davanti alla pulizia etnica compiuta dal macellaio di Kumrovec. Come tacquero le forze democratiche italiane che, desiderose solo di riattaccare i cocci di una nazione sfasciata, preferirono guardare altrove. Come non tacquero, invece, i compagni del Partito Comunista Italiano che plaudirono senza ritegno alla politica aggressiva e sterminatrice di Tito e dei suoi accoliti. Per i sodali di Palmiro Togliatti e di Giorgio Napolitano, dalmati, istriani e giuliani erano fascisti che non meritavano pietà, tantomeno ospitalità in patria.

Per anni i profughi scampati alla morte nelle foibe titine sono stati considerati italiani di serie B, uno sgradevole inciampo per l’apologetica resistenziale dell’Italia del Bene che aveva trionfato su quella del Male. Con l’occupazione comunista migliaia di cittadini italiani furono precipitati vivi nei crepacci che penetravano per centinaia di metri nelle viscere della terra. In 350mila presero la via dell’esilio per sfuggire al medesimo destino di morte.

Ma la madrepatria ben presto si rivelò matrigna: non fece nulla perché gli usurpatori restituissero loro l’onore e i beni rubati. Neppure quando, scomparsa la Jugoslavia comunista, la Slovenia e la Croazia si sono candidate a entrare nell’Unione europea. Sarebbe stato il momento giusto per chiedere alle giovani democrazie balcaniche di risarcire le tante vittime italiane che reclamano giustizia. Invece, i nostri governi hanno taciuto. Ancora una volta hanno colpevolmente subìto l’altrui arroganza senza battere ciglio. Ecco perché la vicenda giuliano-dalmata resta una ferita aperta che non smette di sanguinare. Oggi la frontiera con la Slovenia non esiste più: è un colabrodo che viene quotidianamente penetrato dall’immigrazione clandestina. È una via aperta a chiunque tranne che agli italiani un tempo esuli da quelle terre.

Per loro la strada del ritorno è preclusa. Il mainstream dei “sinceri democratici” accorda sempre la stessa musica: si accontentino di commemorare, una volta l’anno, i morti. Che altro pretendono? Eppure, un ricordo può essere più intenso se s’incarna in un volto di donna. Magari quello di Norma Cossetto, ventitreenne istriana studentessa all’Università di Padova, prelevata dalla sua abitazione di Santa Domenica di Visinada, oggi territorio della Croazia, dai partigiani titini. Violentata ripetutamente, seviziata, torturata e infine gettata viva nella foiba di Villa Surani, nella notte tra il 4 e il 5 ottobre 1943.

Norma, una fanciulla con tante speranze e un amore autentico per la propria patria, pagò nel modo più atroce il rifiuto a rinnegare il suo ideale: essere italiana. Si rassegnino le anime belle del comunismo ancora vivo e vegeto: la memoria non si cancella fin quando, a dispetto del male, vivrà per sempre in un sorriso di donna che va incontro al destino in bicicletta, pedalando per la campagna istriana ebbra di “di questo vecchio sole ottobrino che splende tra le vigne saccheggiate”.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 21:56