Trump: quello che   gli altri non dicono

Il pirotecnico candidato alla nomination repubblicana alla presidenza degli Stati Uniti, Donald Trump, a proposito delle intenzioni di Papa Francesco di recarsi sulle sponde messicane del Rio Grande per pregare nei luoghi dove sono morti i migranti nel tentativo di varcare la frontiera con gli States, ha affermato che il Pontefice è “very political person”, tradotto: uno che fa politica. Grazie Donald! Sentivamo il bisogno di qualcuno che parlasse chiaro.

Il magnate americano dice ciò che pensa e lo fa a modo suo: senza filtri. E fa un gran bene all’opinione pubblica perché una verità edulcorata dal bon ton non è una verità. Ciò potrà anche apparire insopportabile per le anime belle pacifiste, ma Trump dice quel che in molti pensano, soprattutto a destra, ma non hanno la stoffa per dichiararlo pubblicamente. Nella sua ultima uscita sul Papa ha maledettamente ragione: Bergoglio è un soggetto politico a tutti gli effetti che più volte, da quando è stato eletto, è entrato a gamba tesa nelle vicende della politica interna di alcuni Stati, primo tra i quali l’Italia. Non facciamo gli ipocriti: l’intenzione di accendere i riflettori con la sua presenza nei punti caldi dei flussi d’immigrazione clandestina, a Lampedusa come sul Rio Grande, travalica la dimensione della pietà che appartiene all’uomo di fede. Piaccia o no, è un atto d’indirizzo politico: serve a dire ai governanti cosa fare e cosa non fare. Ora, non importa che il contenuto del messaggio sia più o meno condivisibile, il punto è che, in una prospettazione laica della vita comunitaria, l’intromissione, mascherata da atto misericordioso, dell’autorità religiosa nelle scelte di governo di uno Stato sovrano resti totalmente inaccettabile.

La questione non è di poco conto: interroga la natura e i limiti dei rapporti che dovrebbero intercorrere tra due distinte giurisdizioni: quella etico-spirituale della Chiesa e quella politico-giuridica dello Stato. Il sospetto denunciato da Trump è che quel confine, consolidato nei secoli scorsi, sia stato palesemente violato dal pontificato di Francesco. Gli italiani dovrebbero averne colto per tempo gli indizi premonitori. La “scomunica” papale in diretta televisiva del sindaco di Roma, che ha fatto da preludio al licenziamento in tronco di Ignazio Marino non era già un atto ascrivibile al politico Bergoglio? Nessuna meraviglia, dunque, se, scendendo per li rami, il capo dei vescovi italiani, cardinale Bagnasco, si pronunci ex cathedra sulle procedure parlamentari da seguire nell’iter di approvazione della legge sulle Unioni Civili, come, in altra circostanza, il segretario generale della Cei, monsignor Galantino, si sia lasciato andare a giudizi sprezzanti sui politici che si opponevano alle politiche d’accoglienza attuate dal Governo Renzi, definendoli “piazzisti da quattro soldi”.

Il nostro Paese, in un momento drammatico per le sue sorti, non può permettersi il lusso di un salto all’indietro nella storia: non ha alcun senso provare a ricomporre l’unità dei cattolici in politica sotto la ferula del capo della cristianità. Donald Trump ha inteso perfettamente il pericolo nascosto in questo riposizionamento strategico della Chiesa di Roma e lo ha denunciato senza peli sulla lingua. Ci sarà, dalle nostre parti, qualcuno in grado di fare lo stesso? L’ansia di non perdere consensi dal grande serbatoio elettorale gestito dalla struttura reticolare del mondo ecclesiastico ha effetti paralizzanti sui nostri politici che temono l’inferno della sconfitta nelle urne più di quanto li preoccupi il giudizio finale di Dio. La verità è che ci vorrebbe un Donald Trump anche da noi per rimettere le cose a posto. Purtroppo la ruota della fortuna, nella “democrazia del gradimento”, non gira sempre nel verso giusto.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 21:56