Italia-Uk: 2 referendum  e due opposizioni

Con l’intervento del professor Guidi si apre oggi un dibattito sul referendum costituzionale al quale cercherò di far partecipare voci rappresentative di opinioni e di schieramenti diversi (Arturo Diaconale).

Condizionato dai comportamenti della classe politica italiana, non volevo credere a quanto dichiarato da Jeremy Corbin, leader dei laburisti britannici. Qualche giorno fa si è schierato con il Premier Cameron per la permanenza della Gran Bretagna nella Ue. Corbin ha motivato la sua scelta così: “Non si può costruire un mondo migliore senza impegnarsi con il mondo, costruire alleanze e realizzare il cambiamento. L’Unione europea, con tutti i suoi difetti, ha dimostrato di essere una struttura internazionale cruciale in questo senso”. C’è una bella differenza tra i comportamenti del leader dell’opposizione di Sua Maestà britannica e i comportamenti di chi, di volta in volta, dai banchi dell’opposizione italiana, si è trovato a dare indicazioni di voto su questioni cruciali per la vita politica nazionale.

Prendiamo il referendum sulla riforma costituzionale. I favorevoli e i contrari si stanno schierando unicamente sulla base della collocazione politica maggioranza- opposizione al Governo Renzi. Lo stesso è stato nel 2005, quando i partiti di opposizione, allora il Partito Democratico era all’opposizione, si sono schierati contro la modifica della costituzione proposta da Silvio Berlusconi. E dire che le finalità dei due progetti sono molto simili, se si considera che entrambi prevedono: 1) l’abbandono del bicameralismo paritario, un’anomalia da correggere nell’ambito del governo parlamentare; 2) il ruolo direttivo del governo in parlamento, soprattutto per garantire l’equilibrio delle finanze pubbliche; 3) la revisione delle attribuzioni Stato- Regioni, per fini di chiarimento e coordinamento con lo Stato.

Non è in corso un cambio di regime, ma è evidente che i compiti cui è chiamato lo Stato oggi non sono gli stessi di trenta anni fa. Nel secondo dopoguerra tutti gli Stati europei hanno conosciuto un periodo di espansione generalizzata dello Stato sociale (i cosiddetti “Trenta gloriosi” anni). Con il Trattato di Maastricht e la risoluzione di Amsterdam del 1997, la tendenza si è interrotta, perché i “valori” della stabilità monetaria e finanziaria sono stati messi al vertice del sistema europeo. Attraverso l’introduzione del patto di stabilità e crescita (Psc), il parametro del pareggio di bilancio è diventato, pur se in prospettiva e con la dovuta flessibilità, prioritario. La Germania, la Spagna e l’Italia l’hanno addirittura ufficializzato nelle proprie carte costituzionali. Da questo momento le politiche keynesiane di deficit spending, ampiamente attuate anche nel nostro Paese per sostenere la domanda interna, non si sono potute più praticare e si è puntato sulla crescita della domanda esterna. Ciò richiede un cambiamento profondo delle regole che governano la nostra società.

Il quadro istituzionale è questo. La Commissione ha la supervisione sui bilanci statali. La Bce, svincolata dagli interessi nazionali, è il custode della stabilità finanziaria. I governi nazionali sono i garanti degli impegni internazionali assunti nell’ambito degli equilibri macroeconomici complessivi. In questo quadro, è evidente che resta poco spazio per i Parlamenti. I poteri di veto dei Parlamenti, spesso propensi a ricercare consensi di breve periodo, non sono sempre compatibili, almeno sulle questioni economiche, con gli impegni di lungo periodo. Del resto, le obbligate politiche di restringimento del debito e del deficit, che condizionano la redazione dei bilanci pubblici, si possono perseguire soltanto disponendo di governi forti, sorretti da maggioranze coese. È questa forse una diminuzione della democrazia?

Il tema della marginalizzazione dei Parlamenti nazionali è un problema vero. Il Trattato di Lisbona ne è consapevole, per questo ha disciplinato il rapporto tra Parlamento europeo e Parlamenti nazionali. Tuttavia, anche l’avvio di fitti “dialoghi economici” tra istituzioni, finisce per essere spesso del tutto evanescente, di fronte a decisioni già assunte nell’ambito sovranazionale. In una fase come l’attuale, in cui il processo comunitario è fermo e il Consiglio dei Ministri Eu, a trazione franco- tedesca, resta l’unico vero motore dell’Unione, il problema assume connotati anche più gravi.

Tuttavia, è utile farsi una domanda. L’Europa c’interessa o non c’interessa? Intendiamo restare nell’area euro oppure no? Anche in Italia, pur se in chiave prevalentemente elettoralistica, si sta ponendo un’analoga strisciante questione Italexit. Per adesso la contrapposizione è tra Salvini, Meloni, M5S da una parte e il resto del Parlamento dall’altra. È però ipotizzabile, soprattutto in assenza di segni di ripresa dell’economia, che il conflitto si possa ulteriormente ingrossare. In vista del referendum costituzionale di ottobre gli schieramenti politici si dovrebbero confrontare innanzitutto su questo. Se si vuole restare nell’eurozona si dovrebbero accettare le modifiche costituzionali che inseguono la stabilità dei governi e la coesione orizzontale e verticale delle istituzioni del Paese, al fine di governare il processo di fiscal compact. In caso contrario, si può anche ipotizzare di lasciare la costituzione così com’è, nella sua originaria architettura “consensuale”, non facilmente compatibile però con le ambizioni delineate a Maastricht, Amsterdam, Lisbona.

Jeremy Corbin, pur rappresentando la sinistra della sinistra laburista britannica, ha fatto la sua scelta “antidemocratica” e antipopulista, optando per l’Europa dei tecnocrati. Di fronte alle questioni capitali per il futuro del Paese, sia che si tratti di Brexit o di referendum per la modifica della costituzione, tutti i partiti della migliore tradizione popolare e socialista dovrebbero essere chiamati a dare conferma ogni giorno della loro originaria intuizione. La scelta di Jeremy Corbin, nel rifiutare la logica rozza della preordinata contrapposizione politica, ne è un bell’esempio.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 21:59