La scelta lungimirante di Silvio Berlusconi

Certi esperimenti elettorali sulle elezioni amministrative possono funzionare da test per possibili alleanze politiche future. La rinuncia di Guido Bertolaso e la convergenza di Forza Italia su Alfio Marchini, per la scelta del sindaco di Roma, rientrano in questo tipo di esperimenti, in vista delle elezioni politiche del 2018. Sulla vicenda, tuttavia, c’è molto di più di un esperimento, perché c’è l’esplicita esternazione delle condizioni indispensabili per una possibile alleanza tra tutte le forze di centrodestra.

Scegliendo Marchini, Silvio Berlusconi manda un messaggio chiaro: Forza Italia non può essere secondaria e di supporto all’asse Salvini-Meloni. Se qualcuno lo avesse immaginato ha commesso un errore imperdonabile, perché non ha tenuto conto che: a) FI è affiliata al Partito popolare europeo che osteggia il lepenismo; b) il lepenismo è destinato ad essere eternamente partito di testimonianza della destra europea, non di governo; c) Silvio Berlusconi è personalità non propensa a subire l’agenda politica dettata da altri. Sul punto non c’è negoziabilità, anche perché, diversamente, FI perderebbe completamente la propria ragion d’essere, votandosi all’estinzione.

Stando ai riscontri del consenso elettorale odierno, Berlusconi sa benissimo di avere un peso marginale, che lo colloca in una posizione subordinata rispetto all’area Salvini-Meloni. Per uscire dall’angolo deve espandere la sfera della propria area di riferimento verso qualcosa di nuovo, e la lista civica di Marchini esprime le maggiori affinità con l’area liberale.

È questa una scelta strategica per ricostituire un centro moderato che si allea con Renzi, come sostiene Casini? Certo che no. Se nascesse così, sarebbe semplicemente l’autoliquidazione di vent’anni di esperienza politica. No. È una scelta strategica, saggia e realistica, che non finisce a Roma e punta a ricostituire un’area “moderata”, capace di allearsi con la destra oppure con la sinistra. Qualcosa di analogo a quello che capita nei sistemi maturi, come quello tedesco, dove il semi turnover impone alle forze liberali di schiararsi a destra o a sinistra, per fini di stabilità del sistema. Il test romano riveste un particolare significato anche per un’altra ragione. La contesa romana vede correre quattro candidati per la carica di sindaco, che fanno riferimento alle quattro aree politiche nazionali dominanti: il Partito Democratico, M5S, Salvini- Meloni, Forza Italia, in un sistema elettorale in cui al ballottaggio chi vince “prende tutto”. Questo, oltre ad essere il sistema per l’elezione del sindaco di Roma, è anche il modello dell’Italicum, con cui si voterà nelle politiche del 2018.

A quell’appuntamento, quale partito (o coalizione federativa di partiti) avrà le carte in regola per arrivare al ballottaggio? Di questo si tratta. Tertium non datur. Esiste ancora in Europa, e in Italia, uno spazio per le forze politiche che s’ispirano ai valori del popolarismo europeo, nel subbuglio dei nazionalismi e dei populismi imperanti?

Per l’area di riferimento italiana del Ppe la partita del ballottaggio è capitale. Arrivare a guadagnare la competizione con il partito di Renzi significa confermare che il bipolarismo esiste ancora e il centrodestra conserva la sua identità europea, al di là dell’assemblaggio numerico con partiti che non è dato sapere se sopravviveranno ai fenomeni migratori in atto.

Simuliamo le varie ipotesi di un ballottaggio romano, in base ai riscontri odierni, tenendo fuori per un momento l’ipotesi Giachetti, che non pare riscuotere eccessiva capacità attrattiva al secondo turno. In caso di ballottaggio tra Raggi (M5S) e Marchini (Forza Italia-Liste civiche) oppure Raggi (M5S) e Meloni (FdI, Lega), è molto probabile che la trasversalità di Marchini sia più attrattiva della romanità identitaria della Meloni. Questo schema non è ripetibile, ovviamente, nell’ambito nazionale, perché alle elezioni politiche il Pd sarà comunque il partito da battere. Alle politiche, ammesso che il centrodestra unito arrivi al ballottaggio, chi ha la possibilità di spuntarla su Renzi, chi s’ispira alla Le Pen o il Marchini di turno? I termini della questione sono evidenti. Si tratta di dare fiducia a chi è capace di federare l’area popolare e la destra. In caso contrario la scommessa è persa, in partenza.

La scelta di Berlusconi per Roma è lungimirante. Marchini può anche perdere. L’importante è che da qui parta un processo capace di ridefinire i contorni dell’area di centrodestra che, se dovesse avere la conformazione geometrica di destra-centro, è destinata a perdere per sempre.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:01