La destra e il nemico

L’interessante ed attento articolo di Giuseppe Basini comparso su “L’Opinione” qualche giorno fa apre un dibattito – e una prospettiva – sulle contraddizioni (e altro) di una destra nuova, spesso poco riconoscibile in quella che l’ha preceduta, anche in tempi lontani. Scrive Basini che la nuova destra italiana sia “almeno in parte, subalterna alla sinistra”; da ciò avremmo una destra che sembra non sentire più certi valori, dalla difesa della proprietà alla libera iniziativa. Condannandosi così, sostiene Basini, alla marginalizzazione politica, al contrario di altre destre europee e non.

L’analisi è in parte da considerare valida; in altra, a mio avviso, da valutare. In primo luogo occorre tener conto del dato storico: tra le vecchie e le nuove destre – e determinante per le loro differenze – c’è il crollo del comunismo. Questo, sbrigativamente liquidato (e sottovalutato) da chi aveva interesse all’oblio – soprattutto i post-comunisti e le forze politiche ad essi vicine – ha avuto un risultato scontato e prevedibile: di mutare i poli dell’opposizione politica principale e cioè il criterio dell’amico-nemico.

Nel pensiero marxista l’opposizione amico/nemico sussisteva ed era determinata dalla scriminante di classe. Ogni borghese era nemico, ogni proletario amico, indipendentemente da religione, nazionalità, etnia. Il comunismo credeva – anche nelle sue affermazioni costituzionali – di aver “risolto” il problema delle nazionalità relativizzando le contrapposizioni e le differenze etniche e di cultura nell’omogeneità di repubbliche socialiste (spesso plurietniche) formate solo di cittadini lavoratori. La comune identità proletaria doveva essere il mezzo per superare le differenze nazionali. A seguito dell’implosione dell’Urss le differenze sono riemerse: il crollo dell’ideologia internazionalista – un involucro su realtà consolidate da secoli – ha fatto riemergere le identità nazionali. Lentamente anche nell’Europa occidentale, anche se qua è stato determinante la prevalenza di una nuova/vecchia ideologia internazionalista: quella del pensiero debole, di un (preteso) liberalismo esangue ed emasculato, ma soprattutto della globalizzazione tecnocratica. La globalizzazione è volta non solo ad annullare le differenze tra gli uomini e tra i popoli, ma a modificare il presupposto specifico della democrazia, cioè l’omogeneità (del popolo e dei cittadini). Senza la distinzione tra questi (e i non cittadini) si rimuove (o si spera di eliminare) quasi del tutto il presupposto dell’amicus/hostis. L’internazionalismo globalizzatore – coniugato all’ideologia dei diritti dell’uomo (spesso aggressiva) - consente di chiarire il rapporto tra unità politica, di cui la comunità nazionale – è l’elemento essenziale, e la globalizzazione (o meglio il potere globale) e le opposizioni che ne conseguono.

La nazione (e l’istituzione comunitaria) comporta in primo luogo la sovranità e l’affermazione giuridica di questa. Al potere globale, di converso l’uno e l’altra sono un ostacolo, sia perché ne limitano l’azione, sia perché l’autonomia consiste nel diritto delle comunità ad essere differenti, mentre la globalizzazione tende ad uniformare e a limitare le differenze. Ancor più la globalizzazione è incompatibile con la democrazia politica (e, in minor misura con i principi dello Stato borghese, cioè liberali). Il diritto globale consiste in un misto di cosmopolitismo ed individualismo, mentre la democrazia politica pur facendosi carico – almeno se allineata ai principi liberali – sia dei diritti del cittadino che di quelli dell’uomo, li concilia con le esigenze, di ordine ed autonomia dei popoli e consenso dei governati. Ciò ha portato alla sostituzione di una nuova contrapposizione amico/nemico alla vecchia; non è più quella borghesia/proletariato, ma un’altra, ancorché ancora confusa (nell’opinione pubblica). Ossia quella tra nazione e poteri globalizzanti, nonché quella, a mio avviso secondaria (rispetto all’altra) ma comunque importante, tra Occidente e Islam fondamentalista. Ambedue fondate sull’irrinunciabilità all’essere (e voler essere) una comunità distinta dalle altre.

Ne consegue che la vecchia contrapposizione - e i partiti che vi si richiamano - deperiscono e sono spesso in via di sparizione definitiva o di marginalizzazione (come il Movimento Sociale Italiano nella “Prima Repubblica”). Il fatto che la nuove destre non siamo più tanto “destre”, ma anche un po’ “sinistre” è logico, data la nuova situazione storica. Che può portare ad un ripensamento – parziale – nell’attuazione di principi acquisiti. Ad esempio la libertà di commercio internazionale: in alcuni casi essa comporta lo sfruttamento e l’impoverimento delle comunità nazionali, e quindi va, più che rifiutata, contenuta e limitata. Come scrivevano pensatori precedenti Marx come List e de Bonald. Secondo il primo occorreva fare, onde evitarlo, un’economia politica e non cosmopolitica; secondo il francese quest’ultima favorisce la concentrazione della proprietà mobiliare, per cui “lo stesso affarista può far commercio di tutto il mondo”. Onde ricette, soluzioni e terapie apparentemente non di destra e/o non liberiste (come controlli sui movimenti di merci e capitali, o sulle banche e così via) possono essere conformi alla nuova situazione e ad esigenze di “destra” o comunque commendevoli ed idonee a difendere i due capisaldi del pensiero borghese (e quindi – anche – liberale): la sovranità dello Stato e la libertà dell’individuo.

L’articolo di Basini, che mette molta carne al fuoco, richiederebbe più diffuse considerazioni: ma tenuto conto della misura degli articoli, mi limito a queste.

Aggiornato il 06 aprile 2017 alle ore 16:42