Il variopinto fronte del “No” al referendum

È originale il centrodestra nel motivare la propria contrarietà al referendum costituzionale del prossimo ottobre. La riforma bocciata dal referendum del 2006, dicono, prevedeva il vero premierato di tipo britannico. La Boschi-Renzi è una “riformetta”. Non dà al governo tutti gli strumenti che servono per dare stabilità ed efficienza. Si doveva fare di più sul versante dei poteri dell’esecutivo, magari fino a riproporre il modello presidenziale o semipresidenziale di tipo francese.

Schierati sullo stesso versante del “No” ci sono anche altre componenti, partiti, corporazioni, che osteggiano il referendum, per la ragione specularmente opposta. La riforma Renzi-Boschi, dicono, prefigura una specie di regime autoritario, quando l’Italia avrebbe bisogno di più partecipazione, più sovranità, maggiore rappresentanza, più Parlamento, maggiori procedure di controllo e di garanzia, capaci di frenare il potere degli organi esecutivi. Anche la riforma del Titolo V, a giudizio di questa fazione del “No”, per il fatto di togliere potere legislativo alle Regioni e darlo allo Stato, va nella stessa direzione: mina gli spazi di partecipazione e di rappresentanza.

Lo schieramento variopinto del “No”, nonostante le posizioni ideologiche di partenza così divaricanti, va componendo un’alleanza conforme ed eterogenea, formata da due polarità, che stanno assieme, si dice, per fronteggiare la stessa valutazione del rischio autoritario che la riforma nasconde. Al di là della retorica sull’autoritarismo, com’è possibile un’alleanza tra mondi così differenti? Sembra un caso di “milazzismo costituzionale”. Una specie di chiamata a raccolta di tutte le opposizioni, di destra e di sinistra, contro Roma, dove Roma, per la destra è Matteo Renzi e basta, per gli altri: Renzi e la riforma costituzionale.

Se l’è costruita un po’ da solo il Presidente del Consiglio l’alleanza amorfa di questo schieramento, quando ha messo in palio, con il referendum, la riforma, il Governo e se stesso. Tuttavia è verosimile che, anche senza la personalizzazione dello scontro, le cose sarebbero andate allo stesso modo, e i partiti di opposizione si sarebbero dislocati nelle stesse contrapposte trincee. Ma quanta coerenza giocano i partiti in questa partita? La sinistra radicale è sempre stata assemblearista, com’era il vecchio Pci. Qui c’è coerenza assoluta. È questa la posizione quarantottina di chi, dopo il fascismo, ha fatto una scelta istituzionale chiara: meglio un sistema di governo consensuale (Lijphart), assembleare, anche a costo d’instabilità ed inefficienza, piuttosto che un governo forte in cui le garanzie partecipative possono essere a rischio.

Ma, la storia istituzionale della destra è un’altra. Pur restando dentro la cornice del governo parlamentare, com’è stato con la riforma del 2006, l’esigenza di dare all’Italia un governo che governi, aveva consigliato di prevedere a capo dell’Esecutivo un premier come in Gran Bretagna, o un bundeskanzler come in Germania, un presidente del gobierno come in Spagna, capaci, non solo di dirigere la collegialità di un esecutivo, ma anche di determinarne l’indirizzo politico. Questo è quello che ha tentato Berlusconi nel 2006 e reitera, in qualche modo, oggi Renzi.

Tecnicamente Berlusconi si spingeva più avanti. Andava verso un vero e proprio premierato, dove il primo ministro aveva anche il potere di sciogliere le assemblee (la Camera). Tuttavia, la filosofia riformista è identica. Infatti, l’Italicum di Renzi e il rafforzamento dei poteri del governo, assieme, sono capaci di realizzare una specie di premierato all’italiana: il “Nazarenum”.

Come spiega oggi la destra italiana la propria ostilità alla riforma? Mi pare che ragioni così. Nel Dna della destra politica ci sono governi stabili e Stati efficienti, pur dentro un robusto sistema di contrappesi. Ma Renzi, che pur va in questa direzione, non completa il disegno, e non arriva al governo del Premier. Meglio rinunciare a tutto allora. Non farne niente, tenendoci governi deboli, instabili e mediatizzati dal trasformismo parlamentare.

Verranno tempi migliori per la destra italiana? Il quadro delle alleanze politiche è molto cambiato con l’affermazione elettorale del Movimento Cinque Stelle e la poderosa virata lepenista di Salvini. Lo spazio elettorale conquistato da queste forze, “antisistema” nella prassi quotidiana, riduce ulteriormente i margini di consenso per la formazione di maggioranze costituzionali vaste, in grado di riformare la Costituzione. Mentre in Europa gli estremismi e i protezionismi di ogni tipo avanzano, noi facciamo di tutto per restare immobili, in un mondo globalizzato che cammina, invece, vorticosamente ed in un’Europa che richiede decisioni di governo coraggiose, capacità d’intervento straordinarie, oggi e subito, per monitorare e guidare i fenomeni globali. Non c’è tempo da perdere. Domani può essere troppo tardi.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:01