Sara: cronaca di una morte annunciata

Ma cosa ci è capitato? Chi siamo diventati se scegliamo di passare oltre davanti a una ragazza che chiede aiuto? E di ignorarla? Non abbiamo più lacrime per un dolore vero, reale. Perché quelle lacrime, le nostre, le abbiamo lasciate a casa, offerte in pegno all’altra realtà che ci occupa l’esistenza: quel mondo virtuale che, puntellato dalle sue architetture narrative, scorre ininterrotto dagli schermi televisivi e dagli smartphone. La finzione è il pane azzimo che ci consente di attraversare indenni il deserto di una vita mediocre che se potesse si negherebbe a qualsiasi parossismo. Lo si divora senza il fastidio di seminare briciole. Eppure, un tempo quelle briciole sono state frammenti di senso. Sono state prove d’umanità in viaggio nella storia. La vita vera, vissuta in prima persona, al contrario, ci chiama ad agire. Nostro malgrado. Talvolta anche contro il nostro stesso interesse. E ciò non è comodo.

Sara Di Pietrantonio, la ragazza romana uccisa brutalmente dal suo ex, più coglione che pazzo, ha rotto gli schemi. Avrebbe dovuto morire in silenzio, invece si è messa a chiedere aiuto. Si è sbracciata, ha urlato. Per qualche istante, svoltando l’ultimo disperato tornante della sua breve esistenza, ha pensato che a qualcuno potesse importare qualcosa di lei, del suo destino. Povera piccola illusa a cui la vita non ha avuto tempo di insegnare nulla di come siamo diventati, di come il nostro mondo ha deciso di essere. Ora si dirà che è stata la paura dell’altro, il senso diffuso d’insicurezza ad armare la mano dell’altrui indifferenza, ma è una balla: un mezzuccio per non ammettere che questa società ci vuole egoisti. E pavidi. In un mondo che punta a fabbricare soltanto delle monoposto non c’è spazio per la pietas. Niente più sentimenti forti, virili, probi ma solo flebili ammiccamenti alla ragion pratica del nostro “particulare”.

La solidarietà, che non è del tutto scomparsa dal nostro Dna, da civile si è trasformata in passione delegata. “Digitate dal vostro cellulare il numero che appare in sovraimpressione è avrete donato 2 euro per chi chiama da rete mobile o 5 euro per chi chiama da rete fissa” è l’invito dell’idolo di turno e la nostra coscienza è appagata. Tutto a posto, siamo migliori. Almeno così crediamo fin quando una povera ragazza, in fuga su un ciglio di strada semibuio, equivoco, non ci sbatte in faccia la verità, non ci trascina per i capelli davanti allo specchio su cui si posa l’immagine della coscienza. “Che fa, mi fermo o non mi fermo? E se poi la polizia dovesse pensare che c’entro qualcosa? E poi come faccio a spiegare a mia moglie che ci facevo da queste parti, a quest’ora, che è pure zona di puttane? E se invece è tutta una messinscena e questa che si agita vuole rapinarmi? Magari quello con cui finge di litigare è il compare. Io mi fermo e lui mi salta addosso? Potrei chiamare il 113. Ma individuano il numero e se le cose finiscono male devo pure andare a testimoniare e la vita mi diventa un inferno. Caserme, tribunali, avvocati: ma chi me lo fa fare? Sai che c’è: tiro dritto, non ho visto niente”.

È così che se n’è andata Sara: con un urlo muto. Che ci piace e ci sconvolge se viene fuori da un quadro ma ci fa incazzare se sale da un corpo in fiamme. Così si è smarrita la nostra virtù di umanità migliore. In un’ incerta serata di maggio, sulla via “verde” della Magliana dove Roma non ha bellezza, né grande né piccola, in un polveroso piazzale di ghiaia di un’anonima osteria per camionisti. Chiusa per il festivo, come la nostra pietà. E il nostro coraggio di essere uomini. Con la U maiuscola.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:04