Max Fanelli e la buona morte

Gli anni passano, la storia si ripete. Inesorabile. Sono trascorsi 10 anni dalla morte di Piergiorgio Welby, un caso divenuto di portata internazionale.

Welby, affetto da una malattia degenerativa incurabile, chiese ripetutamente che venisse posta fine alla sua esistenza, invocando l’interruzione di un accanimento terapeutico privo di senso. In una lettera al Tg3, pochi giorni prima di congedarsi dal mondo, scrisse “Come già Luca Coscioni, a mio turno sono oggi oggetto di offese e insulti, di pensieri, parole, aggressioni alla mia identità ed alla mia immagine, quasi non bastassero quelle perpetrate al corpo che fu mio e che, invece, vorrei, per un attimo almeno, mi fosse reso come forma necessaria del mio spirito, del mio pensiero, della mia vita, della mia morte; in una parola del mio essere”.

Inutile fu la sua battaglia. Welby chiese ufficialmente la propria morte a fine dicembre 2006: il suo caso suscitò un intenso dibattito sul fine vita e sui rapporti tra legge e libertà individuali. Un dibattito puntualmente arenatosi. All’epoca la Chiesa gli negò persino il funerale cattolico come richiesto dalla moglie. Senza contare le parole pronunciate dal Consiglio Episcopale Permanente: “Chi ama la vita si interroga sul suo significato e quindi anche sul senso della morte e di come affrontarla[...] Ma non cade nel diabolico inganno di pensare di poter disporre della vita fino a chiedere che si possa legittimarne l’interruzione con l’eutanasia, magari mascherandola con un velo di umana pietà”.

Sono trascorsi 10 anni, il 20 luglio scorso si è spento anche Max Fanelli, 56 anni, per un aggravamento delle proprie condizioni. Max era stato colpito nel 2013 da Sclerosi laterale amiotrofica che lo aveva portato alla completa paralisi e a comunicare soltanto attraverso l’occhio destro. Con lui l’Italia perde un altro dei più convinti attivisti a favore dell’introduzione dell’eutanasia nel nostro Paese.

Ancora oggi infatti, nello Stivale, un essere umano non dispone legalmente del diritto a togliersi la vita intesa (erroneamente) da un punto di vista pratico “patrimonio dello Stato”, e, da quello religioso un “dono irrinunciabile” offerto da Dio. È proprio questa la follia contro la quale si stava battendo Fanelli, un uomo che viveva sulla propria pelle la potenza distruttiva di una malattia che lentamente gli aveva sottratto la vita che credeva e sperava gli appartenesse. Un anno e mezzo fa Fanelli iniziò una protesta mettendosi a nudo sui social e scrivendo: “Se vuoi decidere della mia vita, allora prenditi pure la mia malattia”.

Molti sono i malati che pongono autonomamente fine alla propria esistenza, altri quelli che scelgono la Svizzera, dove legalmente è dato porre fine alle proprie sofferenze. La religione non può e non dovrebbe influenzare scelte politiche e giuridiche e soprattutto scelte individuali anche di coloro che non abbracciano quella fede. Solo un Paese laico che accetta la libertà di autodeterminazione del singolo può dirsi civile. Il nostro, purtroppo, ancora non lo è.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 21:58