Rottamato contro rottamatore

Lo spettacolo desolante offerto da Massimo D’Alema e dai due conduttori di un programma di informazione-intrattenimento trasmesso da La7 sulla riforma della Costituzione (18 luglio 2016), si può riassumere alla fin fine così: una colossale sceneggiata orchestrata per il dileggio del segretario del Partito Democratico.

Non ricordo, nemmeno nella storia del vecchio Pci, una caduta così storpia da parte di un leader di partito che, accecato dalla voglia di denigrare i propri avversari interni (Renzi e Boschi), scende tanto in basso nel diapason del disgusto. La cosa è doppiamente disgustosa se si pensa che D’Alema è stato anche uno dei Presidenti del Consiglio della Repubblica Italiana. Nel raffronto Arnaldo Forlani svetta per dignità anche nel momento del declino.

Non fa sconti D’Alema. Tutto è negativo: dalla conduzione del partito alla carenza di dialogo al suo interno, dalla grave sconfitta alle elezioni comunali allo snaturamento dell’anima di sinistra del Pd, dalla gestione della crisi delle quattro banche all’incapacità di dare risposte alla crisi economica, fino alla riforma costituzionale. Il tutto dal pulpito di chi “legge libri” e dunque ha titolo per dispensare patenti e pagelle.

È soprattutto sulla riforma costituzionale però che D’Alema dà il “massimo”, attraverso lo zibaldone di aggettivi demolitori, che la dipingono “cattiva”, “pasticciata”, “confusa”, foriera di conflitti di competenza, “mal scritta”, “mal concepita”, prolissa e soprattutto “troppo lunga”, quando “una pagina basta”, perché ci sono tre semplici interventi da fare: ridurre i parlamentari al numero di 645 invece degli attuali 945, dare il voto di fiducia solo alla Camera dei deputati, aggiustare le competenze tra lo Stato e le Regioni. Verrebbe da dire, ma non era questa la riforma bocciata anche da D’Alema nel 2006? Soprattutto, dov’era D’Alema nel 2001 quando è stato stravolto il Titolo V della Costituzione, cui dobbiamo porre rimedio oggi? Se non erro aveva lasciato da poco la carica di Presidente del Consiglio; non era dunque proprio ai margini della vita politica italiana, tanto da non accorgersi che quella prima, unilaterale riforma, era “cattiva”, “pasticciata”, “confusa”. Forse si occupava già di politica estera piuttosto che delle vicende della Costituzione.

Credo che gli spettatori si siano divertiti in quei 40 minuti di spettacolare denigrazione dell’avversario, anche perché il complice mutismo dei due ridanciani conduttori non ha fatto altro che ingigantire gli arrembanti assalti denigratori dell’ospite di turno. Personalmente non mi sono divertito per niente. Oltre alla faciloneria con cui sono stati maltrattati temi che meriterebbero un diverso maneggio, preoccupa soprattutto l’approccio veterocomunista con cui il tema della riforma dello Stato è stato affrontato. Infatti, se si torna a raccontare che la riforma Renzi-Boschi causa il “restringimento della democrazia e della partecipazione” si torna alla Prima Repubblica, alla consociazione, al Parlamento governante ed ai Governi “esecutivi”, alla pratica delle mediatizzazioni parlamentari, quando invece l’Italia ha bisogno di istituzioni rappresentative e di governi governanti, perché la democrazia o è “governante” o non è.

D’Alema non parla apertamente di “autoritarismo” della riforma. In questo caso marchierebbe in modo indelebile il suo stesso partito. Tuttavia, l’esplicito accostamento dell’attuale riforma a quella proposta da Silvio Berlusconi nel 2005, ampiamente bollata a suo tempo con l’epiteto di “autoritaria”, consegue lo stesso risultato. È evidente che il triste scontro cui assistiamo, da passivi spettatori, ha esclusivamente finalità interne al Pd. Il referendum costituzionale è infatti l’occasione ghiotta per regolare i conti tra due personalità molto diverse e tra due culture politiche non sempre amalgamabili, quella post-comunista di D’Alema e quella del Partito Democratico di Matteo Renzi.

L’arcobaleno dei sostenitori del “No” si tinge così di un altro colore, più acido e velenoso degli altri, perché, oltre che di sapore veterocomunista, è intriso dei caratteri del protagonismo contra personam. Che cosa ci fa Berlusconi in questo minestrone di movimenti, partiti, correnti, associazioni, personalità e personalismi, assemblati per lo più soltanto dalla logica del contrasto al nemico comune? Niente. La scelta pare dettata soltanto dalla necessità di tenere unito un fronte di opposizione che, diversamente, rischia di dissolversi definitivamente. Comprensibile. Il prezzo però è molto alto, perché certifica la contraddittorietà e la subordinazione di Forza Italia a una linea politica tracciata da altri.

Aggiornato il 06 aprile 2017 alle ore 16:24