Stefano Parisi   e la classe dirigente

Sgombriamo subito il campo da inutili equivoci: Stefano Parisi è uomo capace ed intelligente oltre che animato da splendide idee che riportano con la mente alla rivoluzione liberale annunciata da Silvio Berlusconi nel 1994. Ciò non toglie che la sua straordinaria energia rischi di essere vanificata da un metodo di selezione della classe dirigente che, ancora una volta, vede il padre nobile che incorona “per gentile concessione” il suo successore.

Ci sembra di avere ancora negli occhi un tracagnotto Giovanni Toti il quale, in tuta bianca, si affacciava dal balcone della clinica Villa Paradiso, a Gardone Riviera, scodinzolante accanto a Berlusconi. Era stato da poco nominato delfino del Cavaliere, ma poi sappiamo com’è finita: ha vinto Dudù. Ancora prima fu imposto Angelino Alfano ma anche in quel caso siamo stati costretti a dover apprendere che il giovane leader, a dire di Berlusconi, non aveva il quid.

In politica i metodi contano e se quel famoso quid non è talmente dirompente da azzittire i detrattori, ci sarà sicuramente qualche invidioso nel partito pronto a dire che sei un semplice consigliere comunale, che non hai titolo a rifondare il centrodestra e che la tua convention non ha nessun valore politico. Contestualmente, dalla coalizione ci sarà sempre qualche alleato pronto a fare da sponda ai congiurati non dandoti dignità di controparte.

Il metodo della cooptazione ha, fin qui, ammazzato il centrodestra ma qualcuno seguita ostinato a reputarsi l’unto dal Signore pretendendo di posare le mani sul capo del prescelto e battezzarlo come successore. Qualcuno seguita a fare i casting avendo scambiato la politica per un programma televisivo. Qualcuno pensa di poter decidere che un bravo manager che ha perso le elezioni, le abbia perse bene e quindi assurga a dignità di “perdente di successo”. Ciò significa che, indipendentemente dal valore dei prescelti, le sedi di partito servono a selezionare la classe dirigente facendo in modo che coloro i quali si candidano alla guida, se non i più bravi in assoluto, siano almeno i più capaci ad azzittire le fronde interne attraverso l’arma del consenso. Matteo Renzi ne è l’ultimo esempio, ma la politica è piena di personaggi con un ego talmente forte da sbranare come fossero degli agnellini personaggi che prima sembravano intoccabili. Lo stesso Berlusconi non ha certo chiesto permesso quando nel 1994 sbaragliò in soli tre mesi il Pds di Achille Occhetto, forte di una struttura talmente capillare definita “la gioiosa macchina da guerra”. Dalla sua parte aveva una coalizione che non osava nemmeno metterne in dubbio la leadership ed una sorprendente dose di voti.

La politica è spietata, crudele ma soprattutto non prescinde dal consenso interno ed esterno che si esprime attraverso meccanismi che consentano di misurare le forze in campo nell’ambito di congressi, primarie, elezioni e liturgie simili (fruste ma utili). Non c’è spazio per altri metodi. L’alternativa è continuare a perdere tempo diventando preistoria.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 21:59