La riforma pregiudica la forma di Stato

Con l’Italicum più la Riforma costituzionale l’Italia cambia forma di Stato: per mettere in stato d’accusa il Presidente della Repubblica (art.90 Cost.) basterà per la maggioranza che appoggia il Governo più solo 26 parlamentari, mentre oggi a Costituzione invariata ne occorrono 136.

Infatti:

- oggi per l’impeachment del Presidente occorrono 476 voti (maggioranza assoluta di 950, pari a 630 deputati più 315 senatori più 5 senatori a vita): quindi al vincitore del premio alla Camera mancano 136 voti (476-340) per la messa in stato d’accusa ex art. 90 Cost.

- con Italicum più la Riforma costituzionale la “maggioranza assoluta del Parlamento in seduta comune” diventerebbe di 630 deputati + 100 senatori (comprendenti i senatori di nomina presidenziale) + 1 senatore di diritto (Napolitano) = totale 731, la cui maggioranza assoluta è di 366: quindi al vincitore del premio alla Camera mancherebbero solo 26 voti (366-340) per la messa in stato d’accusa ex art. 90 Cost.

Ora, tenuto presente che non risultano tipizzate le fattispecie di “alto tradimento” ed “attentato alla Costituzione”, indicate nell’art. 90 Cost., per mettere in stato d’accusa il Presidente della Repubblica, si deve concludere che se vincesse il “Sì”, per la prima volta nella storia dell’Italia repubblicana, per effetto delle norme richiamate, un solo partito o lista avrebbe la concreta possibilità di minacciare quasi da solo il ruolo di supremo garante dell’equilibrio istituzionale svolto dal Presidente della Repubblica.

Ne consegue uno scardinamento addirittura della forma di Stato e non solo della forma di governo, poiché pone, nel “combinato disposto” con la legge elettorale, il Presidente della Repubblica alla mercé del Governo, ricordando l’epoca del Ventennio di infausta memoria, nella quale il potere era concentrato nelle mani del Presidente del Consiglio, senza che il capo dello Stato avesse, fino ai tragici eventi dell’8 settembre 1943, un reale potere di incidenza e neanche di controllo di costituzionalità sull’operato del Governo.

Ci si rende conto che è soltanto un rischio ipotetico, ma neanche questo è accettabile, così come non lo ha accettato la Costituzione repubblicana, che ha previsto un sistema di garanzie articolato e virtuoso e finanche preliminare per ogni atto dell’Esecutivo, che assuma la veste di Decreto del Presidente della Repubblica. A ciò si aggiunga l’analogo condizionamento della nomina dei Giudici costituzionali, operato dalla Camera dei deputati in numero di tre e dal Senato in numero di due. Detto sistema di garanzie, che inerisce al rispetto dei diritti inviolabili, del principio democratico e del principio pluralista, è pregiudicato dalla riforma costituzionale oggetto di referendum, venendo così a ridurre il presidio indispensabile degli stessi principi fondamentali.

Conseguentemente, secondo il dettato costituzionale, il Presidente della Repubblica dovrebbe rifiutare il Decreto di indizione del referendum, che gli compete ai sensi dell’art. 87 Cost. - salva la possibilità per ciascuna delle Camere (e non per il Governo, essendo, non a caso, l’Esecutivo estraneo al percorso di revisione costituzionale di cui all’art. 138 Cost.) di sollevare conflitto di attribuzione di fronte alla Corte costituzionale nei suoi confronti - non potendo avallare un “pronunciamento” (anche questo di infausta e plebiscitaria memoria) da parte del popolo su una riforma non solo sbagliata, superficiale, confusa e perfino illeggibile, per chi si sia formato sugli studi dei grandi Maestri di Diritto costituzionale, ma finanche pericolosa per i fondamenti stessi del nostro assetto istituzionale. Questo è il risultato che l’inconsapevolezza del presunto riformatore produce.

(*) Docente di Diritto costituzionale nell’Università di Genova e di Diritto regionale nelle Università di Genova e “Carlo Bo” di Urbino

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 21:56