Marcia per la libertà   dei popoli oppressi

La nona edizione della Marcia internazionale per la libertà dei popoli oppressi e delle minoranze, promossa dall’associazione di cultura liberale “Società Libera” insieme con Radicali Italiani, chiederà di rivolgere maggiore attenzione ad alcune aree del mondo in cui negli ultimi anni i diritti e le libertà fondamentali hanno subito attacchi sempre più intensi. Nel pomeriggio di sabato 8 ottobre marceranno a Roma da Piazza Mazzini a Castel Sant’Angelo, e a Parigi da Place de la Bastille a Place de la République, esuli politici di numerosi Paesi soffocati da regimi dittatoriali, fra i quali siriani, tibetani, uiguri, curdi e iraniani, che hanno sempre partecipato a questa iniziativa annuale – spesso insieme con Marco Pannella che li ha sostenuti fino agli ultimi giorni della sua vita.

Questa volta la nostra solidarietà andrà anche, in particolare, agli yazidi – che secondo l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani sono vittime nel nord dell’Iraq di atti qualificabili come genocidio da parte dell’Isis, con campagne di conversione forzata all’islamismo, massacri di migliaia di persone e riduzioni in schiavitù – e a un popolo dell’America latina: quello venezuelano, la cui situazione è precipitata fino alla violazione sistematica dei diritti politici e civili e alla catastrofe economica ad opera di un regime fondamentalista di formula politica non islamista, ma marxista e castrista.

Andato al potere nel 1999 con un piano di riduzione della povertà e forti investimenti sociali, Hugo Chavez riuscì per alcuni anni a mantenere parte di quell’impegno grazie alle entrate dalle esportazioni di petrolio, del quale il Venezuela possiede una delle maggiori riserve al mondo, ma smantellando progressivamente il sistema economico di mercato e i cardini dello Stato di diritto e causando una forte inflazione. Durante i suoi mandati oltre un milione di cittadini venezuelani del ceto medio imprenditoriale sono emigrati all’estero spinti dal sistema politico repressivo, dall’irrigidimento dell’economia statalista, dalla corruzione estremamente diffusa e dal tasso di criminalità elevatissimo. Alla sua morte, nel 2013, il successore da lui stesso indicato Nicolas Maduro ha continuato sulla strada dell’aumento della pressione dell’esecutivo sullo Stato e dello Stato sulla società, limitando ulteriormente le libertà di espressione e di manifestazione; ma in presenza del crollo dei prezzi del petrolio e di disinvestimenti da parte di imprese internazionali i suoi tentativi di mantenere il controllo della situazione sono stati sempre più affannosi, fino alla disperazione attuale. Nel 2015 il prodotto interno lordo è diminuito di circa il 10 per cento, mentre il tasso di inflazione è cresciuto continuamente, con una previsione del 720 per cento quest’anno. La mancanza di valuta estera rende ormai insostenibili le importazioni di beni di prima necessità, e i razionamenti, le manovre calmieristiche, l’imposizione di tassi di cambio politici e le nazionalizzazioni di Maduro non sono in grado di farli apparire miracolosamente.

Alcuni anni fa, in una delle mie missioni a Cuba – per incontrare riservatamente non burocrati di partito, ma ex prigionieri politici, familiari di detenuti e giornalisti indipendenti – notai più volte che a fianco al ritratto di Fidel Castro era esposto quello del suo più giovane collega venezuelano Chavez. La retorica dell’anticapitalismo e dell’antiliberalismo li accomunava, e per qualche tempo le loro economie furono presentate come complementari: fra l’altro, Cuba esportava medici e infermieri, dei quali il Venezuela aveva bisogno, e Chavez mandava al regime castrista gran parte dei loro stipendi in valuta, lasciando loro poco più dell’indispensabile. Intorno a questa rappresentazione di fratellanza le rispettive televisioni di Stato mandavano in onda programmi di una retorica stucchevole; ma difficilmente la retorica sopravvive a lungo ai fatti.

Poiché, nonostante tutto, il sistema venezuelano mantiene ancora alcuni contrappesi al governo presidenziale, da quando le elezioni nello scorso dicembre hanno dato una maggioranza parlamentare alle opposizioni il successore di Chavez sembra vicino al ritiro, tanto che quasi due milioni di firme presentate in maggio alla magistratura competente hanno chiesto un referendum per la sua destituzione. La risposta è stata la proclamazione dello stato di emergenza, accompagnata da una non sorprendente serie di accuse al liberismo, alla speculazione, agli Stati Uniti e a partiti e gruppi definiti “golpisti”, le cui denunce della crisi umanitaria e politica non sarebbero che “propaganda”. La repressione si è ancora intensificata, gli arresti continuano, alcuni giornalisti stranieri sono stati espulsi e Maduro intende anche togliere l’immunità ai parlamentari che lo contrastano (in questo comportandosi, del resto, come Erdogan in Turchia); ma le manifestazioni contro il regime di Maduro riuniscono ormai milioni di persone in gran parte del Paese.

Intanto, fino alla fine del 2016 il Venezuela – saldamente alleato degli ayatollah di Teheran come di altri regimi che violano sistematicamente i diritti umani – mantiene un seggio biennale non permanente al consiglio di Sicurezza dell’Onu: con ciò confermando che una riforma della politica e delle istituzioni internazionali è urgente quanto purtroppo, al momento, improbabile. I regimi repressivi sono spesso fra loro strettamente alleati; il progetto di una comunità delle democrazie, così come quello di un’estensione universale dei princìpi dello Stato di diritto generosamente preconizzata da Marco Pannella, richiederanno ancora a lungo iniziative come la Marcia per la libertà e un impegno politico forte da parte di chi ritiene che i diritti umani universali non debbano essere soltanto proclamazioni.

(*) Segretario del Comitato Italiano Helsinki e membro della Lega Italiana dei Diritti dell’Uomo

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 21:51