Se comprare mutande verdi non è reato

Per Roberto Cota, ex governatore del Piemonte e leghista della prima ora, è arrivata la piena assoluzione nel processo per peculato che lo vedeva imputato insieme ad altri ventiquattro ex consiglieri regionali piemontesi. Secondo l’accusa, che ne aveva chiesto la condanna a due anni e quattro mesi di reclusione, Cota avrebbe distratto fondi pubblici destinati ai gruppi politici regionali per farne un uso improprio. La vicenda, assurta agli onori della cronaca nel 2013, è passata alla storia come lo scandalo delle mutande verdi. Sempre secondo l’accusa infatti l’allora governatore Cota avrebbe addebitato alla collettività l’acquisto di un capo intimo avvenuto durante un soggiorno negli Stati Uniti. Totale dell’investimento in biancheria: 40 euro. Per quei mutandoni e per un serie di altre spese giudicate poco credibili dagli inquirenti Roberto Cota è stato buttato nel tritacarne della gogna mediatica.

Oggi l’interessato si dice soddisfatto dell’esito processuale: come dargli torto. Ma quanto gli è costato in termini umani essere stato eretto per un certo numero di anni a simbolo del peggior malcostume della politica? Per di più con un’accusa rivelatasi infondata? Colpa del cortocircuito creatosi tra settori della magistratura inquirente e mondo dell’informazione dagli anni di Mani pulite in poi. Ma chi ne è stato responsabile? La politica dovrebbe recitare il mea culpa, ma non lo fa. Salvo la lodevole eccezione rappresentata da Forza Italia, tutte le altre formazioni politiche, pur con differente approccio, sono ricorse all’uso improprio dello strumento giudiziario per fini di lotta politica. E le tanto reclamizzate pronunce di fede garantista? Specchietti per le allodole. Troppo interessati i politici a fregarsi a vicenda per avere il coraggio di farla finita con una morale pubblica nutrita con il veleno del sospetto anticamera della verità. Distruggere l’immagine pubblica del proprio nemico politico è stata parte decisiva della strategia del vecchio mondo comunista italiano per conquistare i gangli del potere. Dall’altra parte, a destra, non si è fatto abbastanza per porre fine a un comportamento criminogeno camuffato da vocazione alla legalità. D’altro canto è sempre stato facile seppellire nel fango qualcuno potendo poi non pagarne le conseguenze. Perché a pagare resta soltanto lo sventurato finito nel tritacarne e con lui i suoi affetti più cari. Vite spezzate, famiglie distrutte, onorabilità appestata come le stanze di un lupanare: tutto rigorosamente al netto di una sentenza di colpevolezza pronunciata nella sede giusta che per il patto costitutivo della Repubblica resta l’aula di un tribunale e non le redazioni dei giornali.

In questi giorni fioccano assoluzioni per i politici processati. Vincenzo De Luca, “l’impresentabile” a Salerno, Guido Podestà a Milano, la richiesta di archiviazione per 116 indagati nell’inchiesta su “Mafia Capitale”, oggi Roberto Cota. Tutti assolti eppure, alla prima notizia d’indagine a loro carico, gli interessati furono appesi al palo della vergogna dai media. E adesso chi restituisce la serenità e la dignità ai perseguitati? Benché si riconosca nella stanze della politica che esiste un problema democratico intorno alla pubblicizzazione degli atti della magistratura inquirente, nessuno trova il coraggio di porvi rimedio. Anche il signor Matteo Renzi, che favoleggia di una sua missione da rinnovatore dell’Italia, si è guardato bene dal mettere mano a una normativa più stringente per la tutela della riservatezza delle indagini giudiziarie. Di tutte le indagini, non soltanto di quelle avviate a carico dei suoi amici. Neanche la riforma della Costituzione per la quale voteremo a breve affronta il problema. Ma come potrebbe? Quella proposta da Renzi è una non-riforma, è piuttosto la conferma della legge immortale del Gattopardo per la quale “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”. Giustizialismo mediatico compreso.

Ps: nel corso della stesura dell’articolo giunge notizia dell’assoluzione dell’ex sindaco di Roma Ignazio Marino nel processo che lo vedeva imputato con le accuse di peculato, truffa e falso. Bingo!

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:02