Il quesito insidioso

Il Tar del Lazio, con l’importante sentenza n. 10445 del 20 ottobre 2016, ha dichiarato inammissibile per difetto assoluto di giurisdizione il ricorso proposto da alcuni comitati e movimenti, avverso il quesito referendario del 4 dicembre, ritenendo che, sul punto, l’indizione del referendum da parte del Presidente della Repubblica recepisca pedissequamente la decisione dell’Ufficio centrale per il referendum presso la Corte Suprema di Cassazione e che non costituisca, pertanto, esercizio effettivo di un potere amministrativo.

Anche ove si ritenesse che tale atto incida sul diritto elettorale dei cittadini (circostanza pure sostenuta in altri ricorsi non ancora decisi), neanche il Tribunale ordinario avrebbe giurisdizione in proposito, poiché il quesito referendario si inserisce in un procedimento integralmente disciplinato dalla legge, che assegna all’Ufficio centrale presso la Corte di Cassazione ogni competenza in materia, già esercitata, senza che la relativa positiva decisione, benché riferita ai requisiti di proponibilità del referendum, possa essere più messa in discussione.

La vicenda, tuttavia, induce ancora una volta a riflettere su una riforma approvata dal Parlamento e sul procedimento seguito per la proposizione del referendum. Da un lato, infatti, la Costituzione non prevede una “riforma” riferita a diversi titoli (quella odierna coinvolge, in varia misura, cinque dei sei titoli dell’ordinamento della Repubblica, restando indenne unicamente il Titolo IV, dedicato alla Magistratura), ma solo la “revisione” di disposizioni puntuali o, tutt’al più, come avvenne nel 2001 per il Titolo V sulle Regioni e gli Enti locali, di una serie omogenea di esse, tale da costituire un blocco unitario, affinché eventualmente la volontà popolare possa esprimersi con chiarezza di intenti.

Dall’altro lato, una “riforma” così pesante ed estesa (di ben 47 articoli della Costituzione) comporta necessariamente un quesito che mina la libertà di voto, poiché su alcune modifiche gli elettori potrebbero volere votare “Sì” e su altre “No” e quindi il loro voto sarà frutto di un bilanciamento comunque limitativo della loro volontà. Non può neanche “spacchettarsi” il quesito, come pure qualche mese fa alcuni avevano proposto, poiché il referendum costituzionale è veicolato dall’approvazione parlamentare, che nel caso ha riguardato tutta la legge, pensata in un unico contesto, e non parti separate o distinte di essa.

Aggiungasi, ma non da ultimo, e quale ulteriore stortura, che, dopo l’inusuale ed inusitato protagonismo del Governo nella fase parlamentare con voti di fiducia e quant’altro, mentre la riscrittura delle regole avrebbe imposto la sua neutralità, il referendum è stato chiesto dalla stessa maggioranza che ha approvato la riforma e non dalle opposizioni dissenzienti, come invece presume l’articolo 138 della Costituzione, per verificare se la volontà della maggioranza parlamentare corrisponda alla maggioranza nel Paese. La stessa formulazione del quesito, induttivo alla sua approvazione da parte degli elettori, è espressione dell’impronta plebiscitaria, che il Governo ad esso ha voluto dare e non della verifica della volontà popolare, che invece la Costituzione contempla, senza quel carattere divisivo che è proprio del plebiscito. Come si vede, una riforma sbagliata ed inammissibile non solo nel merito, ma anche nel metodo!

(*) Docente di Diritto costituzionale nell’Università di Genova e di Diritto regionale nelle Università di Genova e “Carlo Bo” di Urbino

Aggiornato il 06 aprile 2017 alle ore 17:08