Silvio Berlusconi e  la riforma “condivisa”

Nel ribadire le ragioni del “No”, Silvio Berlusconi afferma: “Noi votiamo ‘No’ perché vogliamo aprire la possibilità di una nuova, vera riforma, che deve essere naturalmente condivisa”.

La sortita evoca molteplici considerazioni e, probabilmente, indica un percorso. Innanzitutto manda un messaggio di smarcamento da tutte le componenti che osteggiano la riforma in difesa dello status quo. Così si smarca, nello stesso tempo, dalla Cgil, dall’Anpi, da alcune componenti della Magistratura ordinaria, dal Movimento 5 Stelle, da quel filone di costituzionalisti secondo cui il Parlamento, la rappresentanza e la partecipazione valgono di più della governabilità. Nella prospettiva della governabilità, Berlusconi propone sbrigativamente l’elezione diretta del Presidente della Repubblica. Ma non si limita a prospettare le ampie maggioranze richieste dall’articolo 138, e invoca la necessità di un clima di “condivisione” a tutto campo, presumibilmente sull’insieme delle questioni del tempo, che richiedono forme di concertazione più ampie, che non si esauriscono nell’aggiornamento della Costituzione.

Con queste premesse, è facile prefigurare in quale direzione Berlusconi voglia condurre Forza Italia. Per le riforme costituzionali ci vogliono maggioranze grandi. È la stessa Costituzione a dirlo. Ma il tornaconto della politica quotidiana non ha mai consentito, finora, di portarle a termine in base ai propositi unanimi della partenza. Anche se il clima del 1947, dove i partiti hanno tenuto separata la politica dalla Costituzione, non c’è più, Berlusconi lo evoca. Probabilmente immagina, dopo il referendum, un Governo ampio, in grado di andare al di là della riforma costituzionale.

Una cosa è certa. Berlusconi non vuole le elezioni. La vittoria del “Sì” le avvicinerebbe per l’ambizione di Matteo Renzi di incassare il risultato referendario. L’esito negativo del referendum consentirebbe invece di scongiurarle, riaprendo, col pretesto delle riforme, una nuova stagione consensuale. Berlusconi rievoca anche il rischio di “un uomo solo al comando”, com’è stato contro di lui nel referendum del 2006. Ma non collega tanto il rischio alle modifiche costituzionali, quanto all’Italicum. In effetti, con il M5S al 30 per cento e un sistema “tripolare” di fatto, l’Italicum produrrebbe esiti eccessivamente distorsivi della rappresentanza democratica. È vero che l’Italicum non rientra nel thema decidendum del 4 dicembre, ma condiziona non poco la forma di governo parlamentare e incide sulla governabilità molto di più dell’insieme delle modifiche costituzionali proposte. Per questo è diventato il terzo incomodo del referendum. Come abbia fatto Renzi a non capirlo ha dell’incredibile. Se ne avesse avviato subito la revisione, per lo meno con l’introduzione del premio alla coalizione, avrebbe messo a tacere ogni dubbio sul presunto “autoritarismo” della riforma e avrebbe posto le basi per un sicuro esito referendario. Invece, il risultato del 4 dicembre resta incerto, anche perché la commissione costituita all’interno del Partito Democratico non pare in grado di tacitare i presunti tormenti di autoritarismo. Tra il “No” di Zagrebelsky sul tema specifico della riforma e il “No” di D’Alema contro il segretario del Pd in chiave pre-congressuale, il “No” di Berlusconi è del terzo tipo: è contro il Governo e per la riforma dell’Italicum. Berlusconi conosce le emergenze legate alla crisi dell’Unione europea, la catastrofe delle migrazioni bibliche, i rischi di populismo legati alle demagogie del grillismo. Pensa che la bocciatura della riforma rimetterà in gioco Forza Italia, così come aveva prefigurato dopo le elezioni del 2013, proponendo un accordo a termine con Pier Luigi Bersani.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:04