Riunificazione liberale

Forse siamo alla vigilia di un evento che potrebbe avere ripercussioni di carattere generale, anche al di là della specifica area di riferimento e in tutte le nazioni: la riunificazione del mondo liberale. Entriamo nel merito.

Quando, attorno al 1820, la parola liberalismo cominciò ad affermarsi come riferimento immediatamente riconoscibile di quel movimento filosofico, politico e culturale che aveva le sue radici nell’empirismo, nel razionalismo e nell’illuminismo, nell’enciclopedia e nella scienza i suoi strumenti, in Voltaire, Hume, Kant, Smith, Tocqueville i suoi pensatori e aveva già visto nelle rivoluzioni inglese, francese e americana le sue prime fondamentali prove, la situazione nell’Europa continentale, allora così centrale nel mondo, era evidente: esaurita la spinta della Rivoluzione francese e dell’avventura napoleonica, l’Europa era in piena restaurazione assolutistica. Il pensiero liberale, già molto chiaro e definito, portava a una azione conseguentemente altrettanto definita e chiara: l’abbattimento del potere assolutistico statale per ottenere la libertà e la democrazia liberale.

In quel momento storico l’affermazione del liberalismo coincideva quasi esattamente con la distruzione dei poteri dello Stato assolutistico (tranne che nei Paesi anglosassoni dove la libertà procedeva più empiricamente col pragmatismo) e non c’era problema. Il problema sorse proprio con la vittoria del liberalismo in molti Stati europei, con la fine dell’assolutismo, le costituzioni e l’inizio, pur con differenti velocità, della democrazia liberale. Se il nuovo Stato era democratico, come lo si doveva adesso considerare e cioè la democrazia poteva essere considerata realmente tale, fino al punto di far generalmente prevalere la volontà collettiva su quella delle singole persone? E qui, sulla democrazia, i liberali si divisero, e la divisione andò ben al di là del loro mondo, che in fondo metodo e radici comuni impedivano si scindesse completamente, per diventare una vera e propria frattura con nuove correnti di pensiero che teorizzavano un ben differente ruolo per lo Stato. Lo Stato cominciò infatti ad essere visto come nuovamente legittimato dalla democrazia, da coloro che possiamo definire “liberali di sinistra” o radicali o liberaldemocratici, mentre continuò ad essere guardato con sospetto (quando non con timore) dai liberali di destra o se volete liberali individualisti o ancora anglosassoni. I primi pensarono che lo Stato rilegittimato potesse essere lo strumento di una politica di elevazione sociale delle masse diseredate e ignoranti, attraverso una politica di sottrazione di risorse dalla società, volta non solo alla difesa nazionale o a necessarie opere pubbliche, ma anche a redistribuire i redditi attraverso la macchina statale e ritennero inoltre che, affinché la legittimazione fosse completa, il suffragio dovesse essere esteso anche ai soggetti privi di istruzione ed indipendenza economica, che dovesse divenire universale, sia pure gradualmente.

Ma era l’obbligatorietà la vera questione in casa liberale, poteva lo Stato “obbligare” per necessità e se sì fino a che punto? In Italia, ad esempio, ancora per quindici anni dopo la morte di Cavour (il solo che, forse, avrebbe saputo operare una vera sintesi) la politica italiana oscillò procedendo per compromessi (però di alto profilo), come quello sulla scuola, che si era voluta obbligatoria per tutti in un Paese con un enorme analfabetismo, ma ammettendo l’eccezione per coloro che potessero dimostrare di poter dare un’adeguata istruzione anche in famiglia (con esami pubblici obbligatori ogni anno) per mantenere il principio di libertà per coloro che fossero già cittadini emancipati. Il voto generalizzato non si impose subito, ma vi fu un ampio consenso in un cammino che portasse all’allargamento del corpo elettorale col procedere dell’istruzione, mentre la minacciosa presenza militare di un’Austria potenzialmente revanscista, non lasciò invece spazio a un reale dibattito sulla coscrizione militare obbligatoria. Comunque la situazione in Italia restò sospesa tra le due tendenze liberali, fino a quando la caduta della destra storica non segnò la vittoria della corrente liberal-democratica i cui effetti durarono, con l’età Giolittiana, fino alla Prima guerra mondiale. Si ebbero così, insieme al concetto dello Stato quasi coincidente con la nazione, la nazionalizzazione delle ferrovie, i monopoli pubblici, una politica di (cauto) deficit spending, la progressiva trasformazione dell’istruzione pubblica in una fucina per trasmettere valori funzionali allo Stato (primo fra tutti la disciplina, per le esigenze dell’esercito di leva) e infine una contrattata, ma ben avvertibile, pianificazione dello sviluppo industriale.

E in Europa non era diverso, dalla Francia che riprendeva una tradizione Colbertista, prima ancora che giacobina, fino ai Paesi dell’Europa centrale e orientale, in cui anzi una rivoluzione liberale non completamente compiuta, lasciava che il pur nuovo concetto di Stato si riallacciasse in molti modi alle vecchie tradizioni dell’assolutismo. Tuttavia una forte impronta liberale senza aggettivazioni, fondata sul primato della società e su di un’economia basata sulla libera proprietà privata, si era comunque diffusa e questo configgeva non poco con coloro che vedevano ormai nello Stato la più pura espressione della democrazia e nacque il socialismo. I socialisti erano davvero altro, perché non credevano nella società libera vista come foriera di diseguaglianza, ma era ancora un socialismo con un lontano rapporto col liberalismo, perché anche i socialisti vedevano pur sempre nelle elezioni la legittimazione dello Stato. Poi fu la regressione totale.

Sull’impianto teorico della scuola tedesca, che rifiutava illuminismo ed empirismo e affondava le radici nella (vana) ricerca di una costruzione monistica globale (oltre che nella tradizione militaristica), lo Stato si fece valore in sé, divenne concettualmente etico. La sciagurata concezione di Hegel de “lo Stato come supremo inveramento della libertà” che in essenza non significa proprio niente, si impose e l’idealismo tedesco riuscì a contaminare completamente la Germania e parzialmente tutta l’Europa. E il socialismo si fece marxista, divenne comunismo e produsse inoltre per reazione/emulazione l’hegelismo di destra nazista. Dallo Stato etico rinacque in forme nuove il totalitarismo, ma non fu solo la ripetizione dell’assolutismo per grazia di Dio, con al posto della divinità il materialismo, fu qualcosa di ben più profondo, per la disponibilità di mezzi tecnici repressivi che la rivoluzione industriale aveva reso disponibili. Da lì però si cominciò anche a trarre finalmente la lezione che lo Stato non potesse comunque rappresentare realmente “tutti noi” e che inoltre fosse sempre pericoloso, magari “democraticamente” pericoloso. Gli Stati hegeliani però furono battuti, perché, mentre nell’Europa continentale l’idealismo stato-centrico si imponeva, i Paesi anglosassoni ne erano rimasti largamente immuni e anzi la società, maggiormente libera, aveva saputo sviluppare una tale forza economica che, unita al divide et impera della tradizione britannica, si seppe imporre nei due conflitti mondiali. E così è tornato a proporsi con forza (almeno in casa liberale) l’iniziale dilemma, gli Stati restati o tornati democratici possono (soprattutto oggi) considerarsi realmente tali? Luigi Einaudi già nel 1946 ammoniva: “Come conciliare l’irrompere delle grandi masse nella vita democratica, senza cadere nel cesarismo e nella tirannide, è il problema tuttora irrisolto delle democrazie”. Questo nel ’46, ma che dire oggi che siamo tanti di più, massificati dalla globalizzazione e dalle grandi sovrastrutture pubbliche nazionali e internazionali, spiati e controllati da videocamere, satelliti e microspie, da una pluralità di soggetti (magistrature, servizi segreti, polizie, compagnie di telecomunicazioni, hackers) più o meno ambiguamente legittimati, oggi che siamo condizionati da centrali di informazione apparentemente libere, ma consorziate in grandi network e con reti informatiche diffuse capillarmente, ma gestite da pochi giganti, si può davvero parlare di libera e consapevole aggregazione del consenso, tale da sostanziare una reale democrazia? Io credo di no e allora, oggi più che mai, va ripresa una battaglia per una drastica diminuzione dei poteri di uno Stato che, non solo non può essere compiutamente democratico, ma che anzi tanto più può essere democratico, quanto meno ha potere.

Insomma, “portare tutto il popolo al governo di se stesso” nell’unico modo verificabile, permettendo ad ognuno il massimo autogoverno possibile. Avevano dunque ragione, o più ragione, i liberali di scuola anglosassone, quelli che tradizionalmente chiamiamo conservative (i liberals sono ormai solo egualitaristi, socialdemocratici alla Sanders)? Credo di sì, ma non del tutto, perché i grandi gruppi privati organizzati, le multinazionali, pur nati liberamente da una società libera, possono arrivare ad avere poteri uguali se non addirittura superiori a quelli di molti Stati (e quasi altrettanto assolutistici) e allora forse le due tradizioni liberali potrebbero ritrovarsi in una critica di tutte le situazioni oligopolistiche, sia pubbliche che private, sia che siano pretestuosamente giustificate dal dio Stato o che lo siano dal dio Globale.

Quello che oggi chiamiamo frettolosamente populismo è forse in realtà l’inizio di una generica ribellione contro i poteri assoluti, tanto statali che turbocapitalistici, contro la massificazione, contro la globalizzazione illiberale. Una ribellione che potrebbe diventare una rivoluzione consapevole, una rivoluzione liberale, capace di unire liberal-democratici, conservatori e libertarians, recuperando quella tradizione unitaria di lotta per la libertà che fu del primo liberalismo.

Aggiornato il 07 aprile 2017 alle ore 17:56