Quando Croce disse: lontani dai tribunali

La lettera è di Benedetto Croce, indirizzata a Giovanni Amendola (1 giugno 1911). Croce racconta di una disavventura giudiziaria capitata a Giuseppe Prezzolini e si chiude con un consiglio: stare quanto più possibile lontano dai tribunali. Croce non è un estremista anarcoide; è un liberale con il senso dello Stato e delle istituzioni e, tuttavia, quando si tratta dei tribunali consiglia prudenza e cautela. Un po’ come per la superstizione, Croce non crede alla iella: “Ma prendo le mie precauzioni”.

A Croce, al suo “consiglio”, alle sue “precauzioni”, mi viene da pensare nel leggere i risultati di un sondaggio demoscopico secondo il quale un italiano su due ha poca o nessuna fiducia nei confronti dei magistrati e del modo in cui applicano le leggi di cui, purtroppo, questo Paese è infarcito. Confesso che comprendo molto bene questo italiano su due timoroso, e fatico a comprendere come, al contrario, ci sia un italiano su due che questo timore non lo coltivi.

Lui lo dice con il sorriso tra le labbra; io lo penso seriamente e sono d’accordo con il presidente dell’Associazione Nazionale dei Magistrati, Piercamillo Davigo, quando afferma: “Pensavo peggio, temevo stessimo a zero”. Il dottor Davigo si “consola” dicendo che “il consenso nei nostri confronti è cresciuto, dopo anni di campagna martellante contro la magistratura dovrebbe essere a zero”. Non appare molto allarmato da quanto emerge dal sondaggio, e già questo è allarmante; allarma. Un allarme che deriva, probabilmente, dal fatto che si appartiene a quella scuola di pensiero che affonda le sue radici in Émile Zola, le cui notti, diceva, “sarebbero state un incubo al solo terribile pensiero di un innocente che sconta una colpa che non ha commesso”. Sarà preda di incubi, lo sarà mai stato, Davigo?

Non sarebbe male (sarebbe anzi doveroso) che il magistrato si chieda se non sia anche lui, con il suo “fare” (o non “fare”, beninteso) responsabile del modo in cui viene “percepito”. Davigo parla di “campagna martellante contro la magistratura”; verrebbe da rispondergli con Dante: “... credo ch’un spirto del mio sangue pianga la colpa che là giù cotanto costa...”. Ma non è cosa da potersi liquidare con una battuta, con un verso, sia pure di Dante. Due terzi degli italiani dice di non credere nella giustizia; il 69 per cento degli interpellati ritiene che “settori della magistratura perseguano fini politici”. Davigo, non c’è proprio nulla di che scherzare.

Purtroppo, tocca ancora una volta, dire: “Heri dicebamus”. Giusto trent’anni fa i radicali di Marco Pannella, con i socialisti di Bettino Craxi e i liberali di Alfredo Biondi raccolgono le firme per tre referendum sulla giustizia; referendum (se lo ricordano nei “Palazzi” del potere?) che si concludono con una netta affermazione dei “Sì”. Poi il Parlamento approva la cosiddetta Legge Vassalli, che però va in senso esattamente contrario al voto popolare (ma è quello ardentemente voluto dai predecessori di Davigo).

Gli italiani, in stragrande maggioranza, vogliono che sia introdotta la responsabilità civile dei magistrati, perché, per capirci, non si ripetano più casi come quelli di Enzo Tortora. Chiedono che i magistrati fuori ruolo tornino alle loro funzioni originarie. Chiedono che l’uso della custodia cautelare e il carcere preventivo si applichino solo per reati gravi. Chiedono la separazione delle carriere dei magistrati, perché il cittadino sia giudicato da un “giudice terzo”, obiettivo e imparziale.

A leggere i quesiti referendari di allora non ce n’è uno che non valga oggi, per l’oggi. A chi obietta che si tratta di proposte ad uso (e abuso) di politici che hanno qualcosa da rimproverarsi, è sufficiente rispondere con le parole di Giovanni Falcone: “... un sistema accusatorio parte dal presupposto di un Pm che raccoglie e coordina gli elementi della prova da raggiungersi nel corso del dibattimento dove egli rappresenta una parte in causa. Gli occorrono, quindi, esperienza, capacità, preparazione anche tecnica per perseguire l’obbiettivo. E nel dibattimento non deve avere nessun tipo di parentela col giudice, non essere come invece oggi è, una specie di para-giudice. Il giudice, in questo quadro, si staglia come figura neutrale, non coinvolta, al di sopra delle parti. Contraddice tutto ciò il fatto che, avendo formazione e carattere unificate, con destinazioni e ruoli intercambiabili, giudici e Pm siano, in realtà indistinguibili gli uni dagli altri...”.

Ancora: “... Ora sul piano del concreto svolgersi dell’attività del Pm, non può non riconoscersi che i confini fra obbligatorietà e discrezionalità sono assolutamente labili e, soprattutto, che la discrezionalità è, in una certa misura, un dato fisiologico e, quindi, ineliminabile nell’attività del Pm. Ed allora, se vogliamo realisticamente affrontare i problemi, evitando di rifugiarsi nel comodo ossequio formale dei principi, dobbiamo riconoscere che il vero problema è quello del controllo e della responsabilità del Pm per l’esercizio delle sue funzioni... Mi sembra giunto, quindi, il momento di razionalizzare e coordinare l’attività del Pm finora reso praticamente irresponsabile da una visione feticista della obbligatorietà dell’azione penale e dalla mancanza di efficaci controlli della sua attività...” (dall’intervento al convegno di studi giuridici di Senigallia, 15 marzo 1990).

Anni fa Leonardo Sciascia si chiedeva: “Qual è la situazione? Un giovane esce dall’università con una laurea in giurisprudenza, senza alcuna pratica forense e con poca esperienza, direbbe Manzoni, del “cuore umano”, si presenta ad un concorso; lo supera svolgendo temi inerenti astrattamente al diritto e rispondendo a dei quesiti ugualmente astratti e da quel momento entra nella sfera di un potere assolutamente indipendente da ogni altro; un potere che non somiglia a nessun altro che sia possibile conseguire attraverso un corso di studi di uguale durata, attraverso una uguale intelligenza e diligenza di studio, attraverso un concorso superato con uguale quantità di conoscenza dottrinaria e con uguale fatica...”.

E dunque l’innegabile crisi in cui versa in Italia l’amministrazione della giustizia (e crisi è forse parola troppo leggera) deriva principalmente dal fatto che “una parte della magistratura non riesce a introvertire il potere che le è assegnato, ad assumerlo come dramma, a dibatterlo ciascuno nella propria coscienza, ma tende piuttosto ad estrovertirlo, ad esteriorizzarlo, a darne manifestazioni che sfiorano, o addirittura attuano, l’arbitrio... Quando i giudici godono il proprio potere invece di soffrirlo la società che a quel potere li ha delegati, inevitabilmente è costretta a giudicarli. E siamo a questo punto”. È amaro trent’anni dopo dirci le stesse cose.

Vero è, dottor Davigo, quello che annotava, secoli fa, Cesare Beccaria: “Il giudice non cerca la verità del fatto, ma cerca nel prigioniero il delitto”. E dunque, torna buono il cauteloso consiglio di Croce con cui questa nota è cominciata.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:46