Andreotti? Parliamo di chi volle accopparlo

mercoledì 29 marzo 2017


Su “La Verità” di domenica scorsa è uscita un’ampia rievocazione di Giulio Andreotti scritta da Cesare Lanza. Niente, o quasi, che dello statista non fosse noto, anzi già quasi divenuto leggenda. Tranne il fatto che amasse le scommesse e che, come si legge nel titolo, “perse milioni ai cavalli”. Che poi non li perse, perché pare che giocasse con gli amici, che facilmente gli abbonavano le teoriche perdite. C’è però, proprio in apertura, la solita, prudente “riserva” sulla fondatezza delle accuse di cui fu fatto oggetto quando contro di lui si scatenò una delle più accuratamente pianificate e più assurde offensive della “rivoluzione giudiziaria” che travolse la Prima Repubblica.

Dico subito che, ovviamente, non sono stato mai un “andreottiano” e che posso dirmi di lui (anche se le parole sanno di grottesco) “vergin di servo encomio e di codardo oltraggio”. Lo ritenni e lo ritengo uno dei più notevoli uomini politici del suo tempo. Non gli ho perdonato due episodi: lo intesi in una privata conversazione affermare che gli costava che la sentenza della Corte costituzionale che respinse l’incostituzionalità della legge sul divorzio era stata ribaltata dopo che ne era stata “già redatta”. Ebbi modo, a suo tempo, di seguire da vicinissimo la vicenda di quel giudizio e quell’affermazione era certamente falsa o inspiegabilmente imprudente. Ingiusto, e non per un equivoco, era invece l’addebito che fece pubblicamente a Benedetto Croce di “non essere andato in Senato a votare contro le leggi razziali”. Accusa tanto grave quanto infondata. Andreotti non ignorava che Croce, dopo aver pronunciato l’ultimo suo discorso in Senato (era senatore del Regno, nominato a vita) contro l’approvazione del Concordato con la Santa Sede, insultato e minacciato nella replica, da Benito Mussolini, considerò finita e oramai falsificante, la formale sopravvivenza di quel Consesso, e non mise più piede (fin da nove anni prima delle leggi razziali) a Palazzo Madama.

Con me personalmente Andreotti fu sempre attento e riguardoso come nessun altro degli uomini politici che ebbi modo di conoscere. Studiando la figura del Cardinale Antonelli per la preparazione del mio libro “Eminenza, la pentita ha parlato” (1982) rimasi particolarmente colpito, oggi, direi, in modo profetico dalle affinità e le somiglianze dei due uomini politici (Antonelli fu l’ultimo Segretario di Stato del Papa Re). Così gli dedicai quel libro. Non me ne ringraziò. Non certo per distrazione. Per quanto, credo, mostrò di aver capito ciò che io mostravo di aver capito.

Ma torniamo alla storia di questo personaggio e alla sintesi che ne ha fatto Cesare Lanza. Rimettersi alla solita, ipocrita fiducia in quel che hanno fatto i giudici è, anche e soprattutto nel caso Andreotti, addirittura inconcepibile. Il “caso Andreotti” (che, del resto, è solo un episodio del “caso Italia ’90-2011) è uno di quelli su cui un’opinione possiamo farcela, e farcela giusta, soltanto o soprattutto avendo dei giudici e del sistema giudiziario la stima che se ne ha da avere: pessima. Tra tutte le vicende della lunga marcia del Partito dei Magistrati alla demolizione-conquista del potere politico, quella di Giulio Andreotti è la più smaccatamente pianificata. Per la ricerca attraverso di essa dell’effetto devastante del sistema politico, per il tempo, per le sedi, per gli espedienti usati per darle l’avvio, per la scelta degli “assaltatori” incaricati di far breccia.

Non è qui ed ora che si può far la storia delle accuse palermitane e perugine di cui fu oggetto Andreotti e la relativa critica di quanto in esse diede prova di sé la nostra giustizia. Direi che è così evidente che esse furono espressione di una precisa strategia in cui si cimentarono non solo magistrati, ma uomini politici, magari ex magistrati così come taluni aspetti delle tesi accusatorie (mi riferisco, ad esempio, alla “causale” del preteso mandato di omicidio di Pecorelli) erano così manifestamente assurde da consentire di affermare che la non colpevolezza di Andreotti coincideva perfettamente con le colpe dei suoi persecutori.

Parlare oggi di Andreotti senza ricordare questo aspetto sconcertante delle vicende di cui fu al centro, significa falsare la storia, sopprimendo quella che, malgrado tutto, sarà domani, oltre che di quella della vita politica di Andreotti, riconosciuto uno dei momenti più tetri di quella del nostro Paese.


di Mauro Mellini