Le ragioni della Lega

Ho un antico rapporto problematico con la Lega, quando nacque mi interessai, come un po’ tutti, al nuovo fenomeno, che marcava una netta discontinuità con la morente prima repubblica ed ebbi contatti con Pagliarini, Tabladini e Rossi quando, per un brevissimo periodo, si parlò di una lega Italia federale da affiancare alla lega nord e fu aperta una piccola sede a Roma vicino al Pantheon. L’evoluzione sarebbe stata utile, Indro Montanelli titolò sul Giornale “la lega sceglie l’Italia”, ma, quasi subito, cominciò a soffiare un vento completamente diverso in direzione della “repubblica del Nord” (la Padania era un nome ancora da inventare) e si cominciò  invece a parlare di secessione. A Pagliarini, ideologicamente un convinto liberista come me, che mi aveva sondato sulla mia disponibilità a candidarmi per loro a sindaco di Roma, risposi per iscritto che avevo visto forti pulsioni antinazionali nella lega e che dunque mi era impossibile aderire alla lega e ancor di più, ovviamente, candidarmi con loro, perché sentimentalmente molto legato alla mia Patria e ai valori del nostro Risorgimento Nazionale. E si aprì infatti un periodo di profonda involuzione della lega, con le ampolle di acqua del dio Eridano e le coreografie celtiche, che la snaturarono profondamente e la allontanarono dall’ispirazione federalista originaria e le preclusero ogni possibilità di reale incidenza al di sotto del Po. 

Oggi Matteo Salvini, sta ponendo rimedio a tutto ciò, non solo recuperando l’impostazione iniziale che fu federalista e non secessionista, ma permettendo alla lega di estendere la sua influenza a tutto il Paese. E questo è molto bene, per la Nazione ovviamente, ma anche per tutto il centro-destra, per il venir meno della contraddizione a cui Berlusconi pose un temporaneo rimedio con la doppia alleanza, ma che minava comunque le ragioni dello stare insieme. Ma veniamo all’oggi. Cosa c’è di valido nell’impostazione della lega e in generale dei partiti “sovranisti”, sullo stato-nazione?  C’è il riconoscimento, talvolta esplicitato, talvolta  solo intuito, che finora noi siamo riusciti a costruire qualcosa che possiamo definire democrazia, solo all’interno degli stati-nazione, dove cittadini simili per lingua, religione, storia, cultura e tradizioni popolari, si dividono su scelte che sono politiche (liberali e socialisti, monarchici e repubblicani, centralisti e federalisti, giustizialisti e garantisti e così via)  e non etniche e dove il loro voto risulta davvero  contare qualcosa e incidere sulle scelte.  Come ci spostiamo però ad un livello appena sovranazionale non è più così.

Ma davvero crediamo che il cittadino comune, anche dotato di cultura e strumenti di informazione, conti qualcosa nelle scelte della burocrazia di Bruxelles, della Nato o delle agenzie dell’Onu, con quest’ultimo che sembra non volersi più limitare alla composizione degli scontri tra nazioni, ma, con le cosiddette missioni umanitarie, sta assumendo un ruolo di superpoliziotto mondiale nei confronti degli scontri interni delle (sole) piccole nazioni, prefigurando quasi una sorta, se non di governo, almeno di “direttorio governativo” mondiale, tanto più criticabile in quanto non democratico, perché non paritario  (cinque sole nazioni con diritto di veto) e non elettivo? Vi è un’altra buona ragione di fondo nella nuova impostazione della Lega e riguarda l’uniformità e la  diversità. A una visione immediata il mondo si presenta, ancora oggi, come un mosaico di popoli, nazioni, civiltà, estremamente diversi, lontani tra loro nello spazio e più ancora nel tempo. Le culture, le razze e i linguaggi, sembrano ancora presentare delle differenze così grandi da conservare ben distinte le identità dei popoli e da preservare le tradizioni di tutti.  Solo a prima vista però, guardando più attentamente si scopre invece una linea di tendenza verso l’unificazione dei comportamenti, dei gusti, dei modi di vivere, che di anno in anno si fa più marcata, i conflitti ideologici tendono ad essere delle ripetizioni di posizioni di principio invecchiate, delle rappresentazioni teatrali che servono a nascondere realtà sempre più simili e gli interessi nazionali sono sempre più riassorbiti da vaste concentrazioni di interessi sovranazionali. Contemporaneamente si tende verso una divisione del lavoro su scala mondiale, che precisa in maniera abbastanza opprimente i ruoli delle varie nazioni, confinandole talvolta verso produzioni assai poco diversificate e sempre meno autonome e tutto questo, invece di essere il prodotto di una imposizione scoperta o al limite di una lotta, come nel passato, appare piuttosto il risultato di una pianificazione surrettizia a livello planetario, tanto più vincolante in quanto non chiaramente precisabile negli uomini e negli istituti che la impongono, così da mostrarsi travestita come uno sviluppo obbligato e naturale. La mancanza di autonomia delle nazioni, giunta a livelli mai toccati in passato (si pensi all’Europa senza il petrolio arabo od ai popoli del terzo mondo, inurbati, senza l’aiuto occidentale) impedisce il fiorire di modelli di comportamento autonomi, impone la standardizzazione dei prodotti, delle strutture, dei linguaggi, in una corsa senza fine verso l’abolizione del diverso, verso un’uniformità totalizzante e piatta. Tuttavia non siamo in presenza di un fenomeno ineluttabile in senso deterministico (nessuna attività umana lo è) ma di qualcosa che si impone per effetto, accumulato nel tempo, di una serie di scelte. È dunque un fenomeno valutabile, che possiamo accettare, favorire o respingere.

Cerchiamo allora di ragionare attorno a questi fatti e di guardare se questa prospettiva mondialista, alla quale io sono portato a dire no d’istinto, sia veramente auspicabile per l’uomo. Vediamo. Vi sono almeno tre ragioni per dichiarare che tale cammino è errato : una di carattere culturale, una di carattere politico e una di carattere economico. Se riflettiamo un attimo sull’accanimento da collezionisti con cui all’estero ci mettiamo in caccia della stradina, dell’angolo caratteristico, del pezzetto di storia, ci rendiamo conto che in tutto ciò vi è, almeno inconsciamente, la ricerca delle tradizioni e della storia altrui per trovare, nel confronto, quelle consonanze e quelle differenze con le proprie, che danno il senso della propria autonomia e della propria identità. Infatti l’uomo è felice quando può ritrovare il fondo di umanità comune proprio nelle differenze, quando ritrova il suo simile nel “diverso”, mentre non ama vedere delle sue copie conformi moltiplicate all’infinito, come in un grande specchio ed è anzi proprio in quel momento,nel momento in cui il diverso viene imposto come identico, che scatta in lui la molla dell’asocialità.

Questa ricerca però é di anno in anno più difficile, per arrivare alla piazza con i portici delle nostre città, per arrivare al quartiere con i tetti aguzzi e i lunghi comignoli neri a due, tre, quattro canne appaiate delle città inglesi, per trovare la chiesetta gotica in Germania con il prato e la cancellata, dobbiamo attraversare interi quartieri in vetro e cemento desolatamente uguali ad ogni latitudine, mentre per trovare il bistrot, il pub, l’osteria, dobbiamo prima scartare decine di snack bar metallici e anonimi, di cui si può dire che averne visto uno equivale a conoscerli tutti. La seconda ragione é di natura politica. Chi ha detto “aboliamo le frontiere e innalziamo dappertutto le bandiere della pace e della fratellanza mondiale” ha dato la più bella esemplificazione della saggezza della vecchia massima cattolica (dimenticata dall’attuale Papa) che dice che le vie dell’inferno sono lastricate di buone intenzioni . Si pensi che soddisfazione per Mazzini esule a Londra, per Garibaldi in America Latina, per Einstein, Kerensky, Trostky o (perché no?) per Giacomo Casanova, sarebbe stata un’estensione dei loro tirannici stati fino al loro rifugio o anche semplicemente dei trattati contemplanti l’estradizione automatica. Naturalmente l’organismo mondiale ipotizzato dai pericolosi (e un po’ cinici) sognatori, sarebbe invece libero e giusto, ma se così non fosse? Se fosse un “Grande Fratello” di orwelliana memoria? Uno certo é libero di figurarsi un grande stato mondiale democratico e garantista, rispettoso delle autonomie locali e individuali, ma non più di chi lo vede nelle vesti di grande inquisitore in grado, perché privo di contrapposizioni, di condizionare tutto e tutti, uno stato a cui é impossibile sfuggire, sia con le gambe che col pensiero. Va detto però che, mentre la creazione di un ordine mondiale nulla ci fa prevedere sulla bontà o meno delle istituzioni che verrebbero poste in essere, di sicuro viola quello che nella storia ha dimostrato di essere un buon principio e cioè che il pluralismo dei centri di potere lascia comunque, anche quando essi per assurdo esplichino tutti un’azione oppressiva, degli spazi di libertà derivanti dalle contraddizioni e dagli antagonismi che tra essi si creano. Del pari nessuno può credere che i contrasti che si sono avuti nel passato tra le nazioni, basati su contrapposizioni di carattere politico, economico, religioso e financo psicologico, non si riprodurrebbero all’interno della nuova società mondiale, tra corporazioni, movimenti, razze, anzi si aggraverebbero, perché le divisioni della lotta politica da ideologiche diventerebbero dichiaratamente etniche, una grave deformazione della democrazia.. In campo non istituzionale, poi, le multinazionali sono in grado di determinare il mercato mondiale di alcuni prodotti, in misura tale da poter sconvolgere l’economia di interi paesi, senza poter essere efficacemente contrastate, proprio perché privé di un centro di gravità in una nazione (e in futuro ciò potrebbe valere anche per gli Stati Uniti) inoltre, per la facilità con cui possono spostare capitali, sono in grado di esercitare pressioni sui lavoratori e sui governi, ben maggiori delle industrie nazionali, con la minaccia di trasferire altrove la produzione o anche di cessarla.

Le nazioni, come centri di potere decisionale hanno cercato (e trovato) una legittimazione alla loro esistenza nella cultura, nella lingua, nelle tradizioni e il potere dei governi nazionali ha cercato di ricollegarsi alla sovranità popolare, attraverso libere elezioni, mentre la stessa costruzione dell’unità Europea tenta di procedere verso l’unificazione di popoli affini per cultura e tradizione e si propone, come stadio finale, uno stato a sovranità popolare, garantista e rispettoso delle autonomie e questo sia che il punto d’arrivo sia l’Europa federale o l’Europa delle Patrie. La terza ragione é economica . L’imperativo che sembra avere retto le relazioni economiche internazionali nei settant’anni seguenti alla seconda guerra mondiale è quello della cooperazione. Se ci si fosse limitati a scambiare capitali, tecnologie, mano d’opera e materie prime indispensabili, è ovvio che nessuno potrebbe criticare questa linea di tendenza, ma in realtà si é fatto molto di più. si sta per compiere, un vero e proprio salto di qualità verso una totale integrazione mondiale delle economie. Quando l’Europa arriva a dipendere per oltre la metà delle sue risorse energetiche dal gas e dal petrolio importato, quando le più grandi industrie automobilistiche arrivano ad esportare il 50% della loro produzione all’estero (in media senza trarne reale vantaggio, perché perdono fette del loro mercato nazionale) quando l’Africa potrebbe trovarsi sull’orlo della fame a causa di un paio di annate agricole negative negli Stati Uniti, mentre il Giappone importa il settanta per cento del suo fabbisogno alimentare e molti paesi dipendono per i loro reattori dall’uranio arricchito Americano, estratto come minerale altrove, non si ha più cooperazione, si ha una completa integrazione. Integrazione pericolosa, perché fragile e sovraesposta ai rischi di sistema del commercio  internazionale, della finanziarizzazione spericolata, del terrorismo internazionale e della sempre latente vulnerabilità di un sistema di commercializzazione, informatizzazione e controlli, ormai completamente basato su internet.

Una limitata (e concordata) politica protezionista, per tutelare maggiormente innanzi tutto indipendenza energetica ed alimentare, avrebbe certo un costo, ma sarebbe come il costo delle assicurazioni, una spesa utile a prevenire od attenuare eventuali catastrofi. Anche le migrazioni accelerate e invasive, con caratteristiche di illegalità di massa, sono destabilizzanti e pericolose, per il costo umano e sociale che comportano, per le reazioni che determinano e per il deterioramento dei rapporti tra nazioni e popoli che innescano. Non tutte le ragioni della lega e degli altri movimenti sovranisti europei sono liquidabili come inesistenti o demagogiche, un nucleo di verità c’è.  Certo meglio sarebbe (molto meglio) se si fosse compiuto il passo definitivo di togliere dallo statuto l’articolo sulla Padania, ma Salvini si è rivolto a tutti gli Italiani, riconosciuti finalmente come un unico popolo da difendere e far crescere e in politica si guarda anche alle intenzioni e ai mutamenti, che qui sembrano esserci, mentre la sanzione formale spero e credo non tarderà ed anche i referendum consultivi sull’autonomia fiscale in Lombardia e Veneto potranno essere solo preparativi di un vasto movimento contro la tassazione eccessiva dell’intera Nazione.

Sull’Europa, poi, noi europei continentali non siamo affatto come i Britannici, non solo e non tanto perché non siamo un isola, ma sopratutto perché non ci sentiamo parte di una comunità transoceanica di 450 milioni di uomini di cultura anglosassone,  come invece loro per lingua, tradizioni e interessi, si sentono e si sono sempre sentiti. La Brexit non é affatto un dramma per loro, per noi un’uscita lo sarebbe.  I paesi europei sono davvero troppo piccoli, per tutelare se stessi nel mondo di oggi e questa non é propaganda europeista, é la realtà.  Perfino la Germania non potrebbe farlo, fuori dall’Europa tornerebbe un nano politico e se provasse a recuperare indipendenza riarmandosi, si ritroverebbe tutti contro, diventerebbe destabilizzante e, probabilmente, cesserebbe anche di essere un gigante economico. L’Europa ci serve veramente, ma non questa Europa.  Dovrà smettere l’Europa di fare la politica del “siamo buoni, ma col territorio altrui”, difendere unitamente le frontiere comuni e distribuire equamente gli immigrati aventi reale diritto e dovrà non distruggere, ma completare la costruzione dell’euro (se noi oggi uscissimo dall’euro dovremmo probabilmente prendere provvedimenti da economia di guerra come il consolidamento del debito) nell’unico modo possibile e cioè la messa in comune dei debiti nazionali, come fece l’Italia al momento della sua unificazione, che non fu solo un processo di afflusso dei capitali nel triangolo industriale, ma un vero processo di unificazione e di nascita di spirito nazionale, che portò centinaia di migliaia di meridionali a difendere sul Piave le nostre città del nord. L’evoluzione della Lega è davvero positiva e certe critiche che vengono fatte, paiono derivare essenzialmente dalla paura di una lega forte e concorrenziale, risollevata dalla crisi profonda in cui il secessionismo l’aveva portata. La lega, insieme a Fratelli d’Italia, Forza Italia, e tutti gli altri che ci staranno veramente, a cominciare dal Partito Liberale  fino a quello conservatore, dovrà sentire le ragioni dell’alleanza di centrodestra, perché altrimenti c’è un Paese che rischia di rimanere nella palude di uno statalismo oppressivo, che può solo portarci ad  uscire dall’occidente delle libertà e del benessere.

Il “Va pensiero” accompagnò la costruzione dell’unità Italiana, speriamo sia così anche oggi.

Aggiornato il 27 maggio 2017 alle ore 07:48