Acqua: bene comune e razionamento

In Italia l’acqua non manca. Secondo l’Istat, il volume delle risorse idriche nel nostro Paese rimane stabile. Ma stabili sono anche le perdite degli acquedotti e il problema della depurazione delle acque. Stabile e prevedibile, quindi, il settore idrico. Eppure, preda di uno stato emergenziale di fatto certificato dalla proposta del ministro dell’Ambiente, Gian Luca Galletti, di concedere lo stato di emergenza.

Nella Capitale d’Italia, uno dei centri nevralgici del turismo internazionale, rischiamo in capo a pochi giorni di avere i rubinetti chiusi per un terzo della giornata. Venti comuni di Roma hanno già l’acqua razionata. Sarebbe una misura straordinariamente grave. Proprio per questo, non è improbabile che Regione, Comune e Acea troveranno una soluzione, alla fine. Prevarrà quell’arte di arrangiarsi che è il vero carattere nazionale? E il problema, forse, è proprio questo.

La scarsità dell’acqua, a Roma come altrove, non è un fatto straordinario. Non è l’esito di un qualche evento imprevedibile. Acea non è un caso di organizzazione del servizio peggiore degli altri. Se, quindi, si è arrivati a questo punto, al punto in cui il razionamento dell’acqua nella Capitale per 8 ore al giorno è un’opzione al vaglio delle istituzioni, non si può invocare una condizione climatica eccezionale né una eccezionale cattiva gestione.

La situazione, romana e italiana, è il frutto di fattori tutti prevedibili: un insufficiente adeguamento alla domanda (la rete è la stessa, ma la popolazione e il fabbisogno sono aumentati); una carente manutenzione della rete, con perdite stimate in media intorno al 40 per cento. Mancano i sistemi di depurazione e abbondano i buchi nelle tubature, perché investire per riparare e ammodernare vuol dire chiedere soldi all’azionista principale, il Comune, che ha altre priorità politiche di spesa. Per società che non stanno sul mercato perché sono in gran parte in house, una fatica che non vale la pena fare.

Tutto questo non può essere considerato un’emergenza ambientale. È la conseguenza politica di aver creduto che dire acqua bene comune volesse dire acqua sempre, gratis, per tutti. Il referendum del 2011, giocato su slogan seducenti e vuoti, ha avuto conseguenze molto pesanti sulla gestione del servizio idrico. Ha spinto nella cultura politica del Paese la credenza che l’acqua non abbia un prezzo e non lo dovrebbe avere. Ha portato nelle prassi dei Comuni a ostracizzare modelli di gestione di mercato e continuare a far finta che, essendo un bene comune, sia perciò una risorsa infinitamente disponibile.

L’emergenza di questi giorni passerà. E con tutta probabilità avremo presto alle spalle un’altra occasione mancata. Ancora una volta, ci sarà risparmiata la fatica di comprendere che i problemi si devono risolvere, non rimandare

Aggiornato il 26 luglio 2017 alle ore 09:02