Tra ritorno di fiamma e riformismo della “via terza”

venerdì 8 dicembre 2017


Cinque anni dopo, dunque, Fratelli d’Italia lascia la casa “dello zio” – ciò che è rimasto di Alleanza nazionale, a maggior ragione dopo l’implosione politica e non solo del suo leader Gianfranco Fini – per rimettersi sulla carreggiata dei padri (i missini post-fascisti) e continuare, però, a stare al passo coi tempi.

È un’operazione coraggiosa e doverosa quella che Giorgia Meloni ha inaugurato a Trieste, città giuliana che ha donato alla destra la prima vera grande battaglia del dopoguerra: la trincea popolare dell’italianità, riconquistata col sangue negli anni Cinquanta. Un’operazione, sottrarre An dal simbolo e promuovere la Fiamma senza il trapezio del Msi, che intende richiamare lo spirito identitario che animò chi non si arrese alla “morte della patria”, per dirla con Ernesto Galli della Loggia, ma che non intende cristallizzare la proposta politica nella restaurazione di un passato irripetibile, alla destra “esclusa” della Prima Repubblica.

Lo ha spiegato Meloni stessa: “Ci candidiamo da partito che è stato in questi anni all’opposizione a essere una credibile alternativa di governo”. Niente rifugio in quella che oggi risulterebbe una comoda posizione di rendita dei bastian contrari (eventualità garantita da un Rosatellum con una soglia di sbarramento al 3 per cento), insomma, ma forza che si candida ad armonizzare nel binario dell’Italia “prima di tutto” una coalizione che vede i due leader uomini gareggiare sulla leadership invece che preparare la trincea comune per battere Partito Democratico e Movimento 5 Stelle. Davanti a due litiganti, la leader di FdI non intende però indossare i panni della mediatrice paziente ma vuole stanare le reali intenzioni di Forza Italia e Lega sottoponendo a Silvio Berlusconi e Matteo Salvini alcune condizioni e un appello a testa in vista delle Politiche del 2018.

Se “prima gli italiani” è il paradigma sul quale l’ex ministro della Gioventù intende perimetrare la coalizione (ad iniziare dai figli degli italiani che intende tornare a far nascere “con il più grande piano per la natalità mai concepito”, controproposta nazionale allo Ius soli-manifesto del Pd) ribattezzata significativamente “casa dell’identità”, è sul metodo e sul merito che ha insistito durante il secondo congresso di FdI: nei collegi uninominali, ad esempio, il criterio di selezione dei candidati deve prevedere un antidoto ai casi degli impresentabili che hanno ostacolato la cavalcata poi vincente di Nello Musumeci. Per questo motivo l’idea delle primarie di collegio, lanciata dal palco di Trieste, ripropone in scala ciò che fin dal 2012 Meloni chiede: meritocrazia sottoscritta dalla democrazia.

Sull’architettura dello Stato, Meloni ha scelto la via riformista: “Presidenzialismo e federalismo municipale”. Ossia elezione diretta del capo del governo, antica proposta almirantiana, accompagnata da una redistribuzione dei poteri veicolati da quella che reputa la prossimità vera: non quella delle Regioni, sovrastrutture superate, ma dei Comuni, “che sono il vero portato identitario dell’Italia, fin dal Medioevo. Entità estese ma non così tanto da minacciare l’unità della Nazione”. È con questa misura, con la quale ha lanciato l’appello a Matteo Salvini, che la guida di FdI intende aggredire “da destra” il tema presente delle autonomie e delle responsabilità territoriali.

Altro discorso, riferito a Silvio Berlusconi, è quello del richiamo “interessato” ai modelli dei partner europei: “Voglio fare esattamente come la Germania – ha spiegato – Voglio poter bloccare un provvedimento europeo se confligge con la nostra Costituzione, esattamente come fa Angela Merkel”. Clausola di supremazia, si chiama. Ossia la possibilità – davanti a una misura considerata anti-nazionale – di poter far prevalere la norma di casa rispetto la volontà dell’Unione europea. E proprio l’Ue, nello specifico, è stata oggetto di una delle novità più interessanti del congresso: “Guardiamo più al gruppo Visegrad che all’Europa di Bruxelles” ha affermato ancora Meloni dal palco, richiamando il patriottismo organico di Viktor Orbán (ma anche della Slovacchia governata dal socialista Robert Fico) come altro modello di governo e di risposta alle sfide globaliste rispetto al non governo di Bruxelles.

Insomma, dal congresso triestino è emerso il profilo di un partito che a cinque anni dalla sua fondazione – in un momento in cui la destra politica correva il rischio di rimanere fuori, per la prima volta dal dopoguerra, dal Parlamento ma soprattutto dai cuori dell’elettorato – è riuscito a ricostituire una proposta organizzata che si candida a essere attrattiva anche al di fuori del tradizionale recinto della destra. Proposta che vuole caratterizzarsi sempre di più come “via terza” rispetto all’inaffidabilità (voluta) di Forza Italia sulle questioni dell’alternativa all’eventualità nuovo governo di unità e all’eccessivo tatticismo della Lega che, in mancanza ancora di una chiara proposta nazionalizzata, sulla bilancia tra autonomia e interesse nazionale è entrata politicamente in cortocircuito mentre fatica ancora a uscire dal registro di un certo “cattiverio”, utile elettoralmente ma insufficiente politicamente per dare risposte definite ai disastri delle élite antinazionali.

(*) Fondazione FareFuturo


di Antonio Rapisarda (*)