I costi buoni e quelli cattivi

In questi giorni professori e santoni, guru e intellettuali si sgolano per denunciare l’insostenibilità economica del programma di centrodestra. Ci si sbraccia con esempi e conti che la grande stampa di centrosinistra e l’informazione pro Governo Gentiloni inseriscono a tutta pagina  per sbeffeggiare il centrodestra e impaurire gli italiani.

Sia chiaro, qui nessuno dice e si illude che i costi non ci siano anche se diversi da quelli catastrofici annunciati a sinistra. È di tutta evidenza, infatti, che il cambiamento sottintenda un prezzo iniziale da compensare e bilanciare con coperture adeguate e risparmi possibili e intelligenti. Ma quello che evidenzia l’ipocrisia intellettuale, la critica strumentale, e soprattutto l’inaffidabilità del centrosinistra, è il mancato elenco con altrettanta forza dei costi del non cambiamento. Se, infatti, l’Italia restasse così com’è, oppure al massimo cambiasse con qualche pezza a colori simile a quelle messe fin qui dal centrosinistra, cosa succederebbe ai conti del Paese? Quanto costerebbe agli italiani il mantenimento dello status quo del sistema, seppure con un Pil in salita dell’1,3/1,4 per cento?

Nessuno sottolinea che mantenere in piedi un sistema fiscale asfissiante, persecutorio, ingiusto e forse incostituzionale rispetto ai diritti del contribuente, finirebbe con il trascinare all’inferno il Paese. Alla lunga, infatti, il nostro impianto fiscale finirebbe con il soffocare del tutto non solo lo stimolo alla produzione della ricchezza, ma la fiducia fra Stato e contribuente che è alla base di ogni sviluppo. Per non parlare della previdenza, continuare con la legge Fornero, senza separare previdenza e assistenza, eliminare i privilegi a favore dei più deboli, sfoltire gli ammortizzatori a vantaggio di chi veramente ne ha bisogno, significherebbe lo sfascio sociale definitivo.

Puntare tutto o quasi sull’allungamento dell’età pensionabile, trascurando l’insostenibilità dei cosiddetti diritti acquisiti, lo sviluppo di previdenze integrative e i nuovi modelli occupazionali, porterebbe a un nuovo collasso fiscale. Come se non bastasse fare finta che in Italia serva ancora un apparato pubblico gigantesco, furbetto, inutile e inefficiente, significherebbe scaricare sul privato un peso economico insopportabile che prima o poi schiaccerebbe tutto e tutti.

Per non parlare degli sperperi e degli sprechi nella sanità, negli enti locali, nelle aziende municipalizzate e di tutto ciò che è fonte solo di costi e in parte di malaffare. Dulcis in fundo l’immigrazione, un fenomeno che per via della scriteriata accoglienza senza li miti voluta dal centrosinistra, è completamente sfuggito di mano in termini di spesa pubblica e sicurezza sociale. Insomma, nessuno ipocritamente ha il coraggio di dire quanto costerebbe al Paese non cambiare, iniziando dalla giustizia che è il perno fondante della democrazia e del rispetto verso la sovranità popolare. Ecco perché diciamo che il programma di centrodestra serve al Paese, serve al futuro dei giovani, allo sviluppo dell’intrapresa, all’equilibrio sociale, alla crescita collettiva. Ecco perché tra i due costi, quello rovinoso e gattopardesco che da decenni i cattocomunisti scaricano sulle casse pubbliche senza ritorno e quello del programma di centrodestra che darà crescita strutturale, stimolo, fiducia e risanamento non c’è storia. Cambiare si può, cambiare si deve, perché è l’unica strada che ci resta per guardare al domani con ottimismo.

Aggiornato il 24 gennaio 2018 alle ore 08:10