Travaglio condannato: la trattativa colpisce ancora una volta

giovedì 25 gennaio 2018


Le leggende giornalistiche fiorite intorno alla famigerata “trattativa” tra Stato e mafia rischiano di nuocere alla libertà di stampa ma anche al giustizialismo come scorciatoia per il successo editoriale.

La notizia è che due giorni orsono Marco Travaglio, direttore de “Il Fatto quotidiano” – giornale che sul giustizialismo ha costruito un grande successo editoriale, appena appannato dai debiti per 4 milioni di euro accumulatisi inevitabilmente quando si ha a disposizione pochissima pubblicità (anche perché quasi tutte le aziende inserzioniste sono potenziali bersagli di inchieste) – è stato condannato a rifondere qualcosa come 150mila euro di sola provvisionale a Mario Fontana, Wilma Mazzara e Annalisa Tesoriere. Cioè i magistrati del collegio di Palermo. I tre che assolsero Mario Mori e Mauro Obinu, generali del Ros, dall’accusa di avere favorito al latitanza e la fuga di Bernardo Provenzano. Sentenza dell’ottobre 2013 confermata in appello nel maggio 2016. Poi, poco più di un anno dopo l’assoluzione, fu confermata in Cassazione.

Travaglio scrisse tra l’altro nell’editoriale del 16 ottobre 2013: “Ora abbiamo la cluster sentenza che non si limita a incenerire le accuse del processo in cui è stata emessa ma, già che c’è, si porta avanti e fulmina anche altri processi, possibilmente scomodi per il potere”.

Il riferimento era ovviamente al processo sulla presunta trattativa Stato-mafia, tutt’ora in corso a Palermo. Il cluster sarebbe il grappolo. Come a dire che una sentenza si può riverberare in un effetto domino su altre decisioni. Ma sin qui siamo nel pieno diritto di critica. Il passo incriminato che provocò la reazione dei magistrati della quarta sezione penale del tribunale di Palermo fu invece questo: “La grande innovazione si deve ai tre giudici della IV sezione del Tribunale di Palermo che l’altro ieri hanno depositato le motivazioni dell’assoluzione del generale Mario Mori e del colonnello Mauro Obinu, imputati di favoreggiamento mafioso per non aver catturato nel 1995 Bernardo Provenzano pur avendolo sotto il naso in una masseria di Mezzojuso, secondo le dettagliate indicazioni del boss confidente Luigi Ilardo, poi naturalmente ucciso. L’innovazione è foriera di effetti benefici per lo snellimento dei processi: con la pratica formula Dash ‘prendi tre e paghi uno’, i giudici di un processo ne celebrano pure altri due, risparmiando la fatica ai loro colleghi impegnati in quelli. Nel nostro caso, i valenti magistrati che hanno assolto Mori e Obinu hanno deciso che è ormai inutile celebrare il Borsellino-quater a Caltanissetta sulla morte del giudice e della sua scorta in via D’Amelio, e anche il processo sulla trattativa Stato-mafia, appena iniziato dinanzi alla Corte d’Assise di Palermo. Dunque è oltremodo superfluo ascoltarvi Napolitano (citato in entrambi) e gli altri testimoni eccellenti indicati dalle rispettive Procure”.

A ben vedere, solo un po’ di sarcasmo che però i giudici di Palermo non hanno preso a ridere. Cosa che fa pensare che il clima sia cambiato fortemente nei confronti del giornale delle Procure. Forse addirittura si è manifestato un fenomeno interno alla magistratura di separazione tra le opinioni e le suscettibilità degli inquirenti e quelle dei giudicanti. Che dovrebbe fare riflettere sul tema della separazione delle carriere. Che all’interno dell’universo togato sta procedendo in maniera carsica. Travaglio e i suoi cronisti di assalto sono infatti i beniamini del partito dei pm, ma non più di quello delle toghe che giudicano. Travaglio entrò molto nel dettaglio della motivazione: “Poi finalmente, a pagina 846, i cluster giudici si ricordano dei loro imputati, cioè Mori e Obinu. E scrivono che sì, in effetti, evitare di catturare Provenzano due anni dopo aver evitato di perquisire il covo di Riina non fu una bella cosa. Anzi, fu una ‘scelta operativa discutibile’, in cui ‘non mancano aspetti opachi’. Una ‘condotta attendista’ che sarebbe ‘sufficiente a configurare in termini oggettivi il reato di favoreggiamento’. Ma – e qui casca l’asino – non in termini soggettivi, perché ‘non è adeguatamente provato’ che Mori l’abbia fatto ‘per salvaguardarne la latitanza’”.

A ben vedere, le critiche non erano del tutto immotivate ma evidentemente il tono irrisorio generale dell’editoriale deve aver convinto i magistrati romani a dare al direttore del “Fatto” una scoppola senza precedenti. Almeno per lui. Per tutti gli altri giornalisti comuni mortali che ogni giorno annaspano tra querele di pm e giudici ipersensibili a qualsivoglia critica, la cosa avrebbe fatto molto meno sensazione.


di Rocco Schiavone