Snellire la burocrazia spetta al governo liberale

martedì 6 marzo 2018


Quando sento parlare o scrivere di una società civile buona contro una società politica cattiva mi cascano le braccia e mi chiedo: “Chi parla e scrive così, dove vive? Chi frequenta? Come ragiona o, meglio, sragiona?”.

Due presunte Italie separabili in base alla virtù civica non esistono. Il politico italiano non differisce dal cittadino italiano. Non si distinguono. Lo ripeto spesso. Fino alla noia, ma invano. L’uno e l’altro sono lo stesso camaleonte perfettamente mimetizzato nella società, della quale assume i colori. Il politico e il cittadino sembrano e sono come l’habitat in cui vivono. Cambiano colore col mutare delle condizioni ambientali. Aspettarsi un camaleonte candido in una selva nera, più che ingenuo è irrealistico. Le due Italie, dunque, sono inseparabili. Il coltello dei moralisti (cacciatori di voti con il pretesto del monopolio dell’onestà!) non può separarle di netto. “Noi” non siamo diversi da “Loro”, anche se alla maggioranza spiace ammetterlo. L’equivoco sta nel credere il contrario. Ahimè, ben a ragione la forza degli elettori poggia sulla certezza che gli eletti saranno comunque della stessa pasta. La società civile buona che dovrebbe rigenerare la politica cattiva è un mito consolatorio, un’astrattezza teorica, un’idea sganciata dalla realtà. In breve, un pio desiderio. E, se volessi affondare il coltello nel cuore del mito, dovrei dire che la bontà della società civile è un’allucinazione della stessa società civile e dei suoi miopi cantori.

Gl’Italiani passano, infatti, la metà del tempo a rimediare i guai che combinano nell’altra metà. Pasquale Villari nell’Ottocento osservò: “Vi è in Italia un gran colpevole: e quest’uno siamo tutti noi” e nel Novecento Aldo Busi ha concluso: “È ora che gl’Italiani scendano in piazza contro se stessi”. Due brillanti paradossi per la stessa verità in saecula saeculorum, come ho sottolineato nel libro “L’ideologia italiana”. Una delle prove incontrovertibili di tale doppiezza e ambiguità, consustanziali al carattere degl’Italiani, consiste nell’atteggiamento verso la burocrazia, condannata a parole, invocata nei fatti, deprecata tuttavia a dispetto della coerenza e dell’esperienza.

Un esempio piccolo ma illuminante della mentalità pseudo antiburocratica ma in effetti inconsapevolmente filo burocratica lo ricavo da una lettera al primo quotidiano nazionale, che l’ha pubblicata per convinzione o ironia, non saprei, sotto il titolo “Burocrazia, istituire un ministero per la semplificazione”. Ecco la lettera, parola per  parola: “La burocrazia è una piaga nazionale: ne parlano tutti e tutti se ne lamentano, a partire dai politici, ma nessuno si preoccupa di snellirla. Tra poche settimane si vota: i vincitori, indipendentemente dalle idee politiche, creino un apposito ministero per snellire la burocrazia”.

Che dire, se non che trattasi quanto meno di un capolavoro letterario, emblematico della politica autolesionistica spacciata per avvedutezza e lungimiranza. Il candido lettore evidentemente ignora (il giornale, invece, non dovrebbe!) che siamo forse l’unico Paese al mondo che ha da lustri, sotto vari nomi, un ministero per riformare i ministeri? E che a tale ministero spettano di diritto l’augusto nome e l’imprescindibile funzione dell’Ucas, Ufficio Complicazione Affari Semplici? E che pretendere che un ministero “snellisca” la burocrazia equivale a presumere di poter sgrassare il colesterolo? L’assetto burocratico non è affatto indipendente dalle idee politiche, come crede l’ingenuo lettore pateticamente indignato. Al contrario, la burocrazia è figlia legittima dello Stato illiberale, cioè dello Stato che sostituisce indebitamente la direzione parassitaria pubblica all’ordine della cooperazione volontaria.

Non si può chiedere più intervento statale e meno burocrazia, più spesa pubblica e meno uffici amministrativi, più assistenzialismo e meno impiegati. Un governo liberale degno del nome, il primo provvedimento che dovrebbe adottare riguardo alla burocrazia, sarebbe perciò l’abolizione del ministero che ne porta il nome.


di Pietro Di Muccio de Quattro