Dopo-voto: quale futuro per il pensiero liberale?

La politica italiana somiglia a un grosso buco nero del quale manifesta la più sorprendente peculiarità: tutto ciò che vi gravita intorno viene risucchiato da una forza centrifuga che paradossalmente diventa centripeta. Nella fase del dopo-voto tale fenomeno è visibile a occhio nudo.

Gli esiti elettorali, che avrebbero dovuto scacciare lontano le tentazioni per i giochi di palazzo e per i tatticismi del frusto potere partitocratico, vengono inghiottiti dal buco nero della vecchia politica la quale tenta di capovolgere a proprio vantaggio tutti gli effetti dinamici introdotti dal cambio radicale di orientamento del corpo elettorale.

Se non piacciono i “buchi neri” e le teorie di Stephen Hawking allora si ricorra, nel cercare metafore appropriate, all’usato sicuro di Tomasi di Lampedusa e del “Gattopardo”. In fondo, quel cinico “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi” non è mai stato abiurato dalla coscienza italica. Eppure, mai come adesso sarebbe necessario che qualcosa davvero cambiasse per non trascinare il destino del Paese nel “buco nero” degli interessi incrociati dalle sue classi dirigenti. Meglio evangelici: chi non ha sbagliato, scagli la prima pietra.

Non si conoscono le altrui virtù ma della componente liberale e riformista del centrodestra, che è uscita strapazzata dal voto del 4 marzo, qualcosa si può dire. Si prenda la parabola di Forza Italia. Sarebbe fin troppo facile adesso esercitarsi nell’imperitura arte del puntare il dito. Quel “l’avevamo detto...” insopportabile all’udito quanto molesto per l’intelligenza. Tuttavia, è inutile fingere che non sia accaduto: il consenso nel centrodestra si è spostato massicciamente dalla componente liberale ed europeista a quella radicale e sovranista. Si è trattato di un fattore congiunturale collegato alla protesta sociale? O invece si assiste a un cambiamento strutturale nella visione politica della destra? La risposta è complessa.

Riferendosi all’insuccesso elettorale di Forza Italia, indubbiamente hanno inciso alcuni aspetti contingenti che, in una prossima tornata, potrebbero non ripresentarsi o non avere il medesimo impatto negativo. La mancata agibilità del suo leader, Silvio Berlusconi, a candidarsi per la premiership ha penalizzato il movimento azzurro. Alcune pessime scelte di comunicazione hanno fatto il resto. Ma bastano questi elementi per quietare i sonni agitati dei sinceri liberali? Non ce la si cava mettendo tutto il carico sulle spalle del vecchio leone di Arcore. Il flop del 4 marzo è l’esito finale di un processo di erosione del consenso cominciato dallo scorso decennio. A essere precisi: dal momento in cui l’allora Partito delle Libertà, che aveva ricevuto una seconda chance dagli italiani per rivoltare il Paese come un pedalino a suon di riforme strutturali, fallì nella missione di reinterpretare il paradigma liberale in una versione adeguata alla mutazione della società. Ecco il punto! Molto è stato speso nel compiacersi del fatto che la sinistra avesse mancato nella sua competenza principale: la rilettura dei rapporti di classe nel post-Novecento, ma si è tralasciato di ragionare sulla compatibilità del pensiero liberale con gli effetti scaturenti dall’estensione della globalizzazione economica dal cuore della civiltà occidentale alle sue periferie più lontane e dimenticate.

Ora, risalire la china si può. Sarebbe l’errore più grave abbandonarsi ad una sorta di determinismo storico per il quale, essendo giunto il tempo dei populismi, tutto il resto deve farsi da parte. Vi sono concreti spazi per un nuovo protagonismo a patto che si abbia la forza e la volontà di ricominciare da capo. Ripartire dal pensiero per rispondere alla domanda: “Quale liberalismo?”. Non è semplice perché i luoghi naturali nei quali avrebbero dovuto svilupparsi le idee sono stati progressivamente desertificati fino all’abbandono definitivo. Tuttavia, alcuni di essi ancora resistono. All’interno delle redazioni dei giornali d’area, di quei “think tank” che nel frattempo non si sono convertiti in gabinetti psicanalitici per i suoi rampanti protagonisti colti sull’orlo di una precoce crisi di nervi; delle associazioni e dei circoli quando non hanno funzionato da paravento per improvvisati comitati elettorali di questo o quel “cacicco di borgata”.

Un ripensamento complessivo sulla funzione del pensiero liberale nel tempo storico della post-modernità ne aiuterebbe il riposizionamento strategico su nuove prospettive e con nuove parole d’ordine. Attenti, però. Dialogare deve significare ciò che è testualmente scritto nel vocabolario Treccani: “...discutere apertamente, scambiarsi punti di vista diversi, per raggiungere un accordo, un’intesa”.

Se, invece, per confronto si vuole intendere la fiera delle vanità dei soliti noti che ripetono allo sfinimento il medesimo copione ingiallito negli anni, allora: No! Grazie. Meglio starsene ciascuno a casa propria a contemplare da lontano l’altrui capacità di cogliere i segni della trasformazione sociale. Che poi se c’è una cosa che ai liberali riesce benissimo è coltivare, con orgoglioso compiacimento, il solipsismo. Neanche fosse il più bel fiore del proprio giardino mentale.

Aggiornato il 17 marzo 2018 alle ore 08:14