Politica, teorie e bipolarismo

Un aforisma, un commento – “Se una teoria, per essere descritta, ha bisogno di più di 2 pagine, probabilmente è una teoria debole. Se ha bisogno di più di 10 pagine, probabilmente è una teoria inconsistente. Se ha bisogno di più di 30 pagine è sicuramente una teoria politologica”.

Le cosiddette “Scienze politiche” spesso danno mostra di essere tutto fuorché scienze. È il caso di un articolo de “Il Sole 24 Ore” di Sergio Fabbrini il quale è docente, appunto, di Scienze politiche alla Luiss. Un articolo che potremmo definire di fredda “meccanica politologica”, privo di analisi storica, lontano anni luce dalla profondità necessaria per capire cosa tiene insieme qualsiasi società e cosa ne determina i mutamenti. La tesi centrale dell’articolo deriva dalla convinzione che sia l’intero sistema socio-politico europeo a presentare quello che l’autore definisce un “cambiamento strutturale”, col quale l’Italia dovrebbe fare i conti scegliendo se stare con i “sovranisti” o limitarsi ad agire eurocriticamente. Il dato comune, in Italia sarebbe, secondo Fabbrini e per molti altri commentatori, la fine del bipolarismo. Sulla base di queste considerazioni, l’articolo termina con un quesito del tutto accettabile ma per approdare al quale non vi era alcuna necessità di sollevare tesi di cambiamenti epocali italiani ed europei. In merito alla possibile formazione di un Governo nel nostro Paese, scrive infatti Fabbrini: “Piuttosto che fare il gioco di ‘chi sta con chi’, è necessario chiedersi, un governo per fare cosa?”.

E qui sta il punto. Quando un Governo “fa qualcosa” agisce secondo motivazioni che, in democrazia, non possono non tenere conto delle volontà espresse dai cittadini elettori. Questi, da parte loro, sia che votino pro sia che votino contra, esprimono esigenze che ritengono essenziali, innanzitutto, per se stessi poiché ognuno pensa di essere al centro del cosiddetto “bene comune” e che, comunque, il bene comune non possa che cominciare dal proprio. Lo stesso ceto medio che, oggi, è prevalente e determina gli andamenti elettorali, al suo interno si schiera su due fronti opposti accomunati dalla moderazione ma sicuramente influenzati da interessi personali, motivati da speranze, paure o rancore. Insomma, un “polo unico”, in una democrazia liberale, non ha alcuna possibilità di sussistere né avrebbe alcun senso la pura e semplice assenza di polarità di interessi e di ideali.

Forse Fabbrini dovrebbe rileggere Pareto e la sua teoria dei residui e delle derivazioni per capire quanto il “bipolarismo”, inteso come tradizionale opposizione dialettica fra destra e sinistra, sia immutabile perché intimamente legato alla natura umana. Tale natura, negli affari politici delle democrazie liberali che hanno consacrato e resa funzionale la suddetta contrapposizione, si esprime per l’appunto in interventi dello Stato che sempre sono e saranno definibili come “di destra” o “di sinistra” a seconda del primato che, nella formulazione delle leggi, viene dato a chi, grazie alla libera iniziativa economica, produce ricchezza rispetto a chi, invece, ne propone la redistribuzione o l’orientamento a fini sociali.

È francamente tedioso, ma significativo, che anche Fabbrini insista nell’uso dei termini centrodestra e centrosinistra, un’abitudine che, da noi, sembra quasi obbligatoria e “corretta” per non esasperare, eliminando il “centro”, una contrapposizione che, invece, è tanto più salutare quanto più essa è chiara e che, ad ogni modo, si esprime o dovrebbe esprimersi, con chiarezza, nei fatti governativi concreti.

Anche la ristrutturazione dell’Unione europea non sfugge, in fondo, al modello sopra descritto e la reazione dei Paesi e degli elettori “sovranisti” non rappresenta altro che la degenerazione verso una sorta di socialismo di destra, talvolta definito come populismo, che la Storia europea ben conosce, fatto di miopi chiusure e difese a oltranza, ma senza futuro, della propria sovranità.

La destra europea, quella seria, è semmai rappresentata da coloro che, da noi, vengono definiti “rigoristi”, senza dubbio ben diversi da coloro che, sempre da noi, sarebbero pronti, da sinistra o, appunto, in nome del socialismo di destra, a spendere soldi che non abbiamo e che altri, chissà perché, dovrebbero continuare a prestarci a bassi interessi. Richieste di rigore e pretese di flessibilità sono le due anime che la destra e la sinistra manifestano oggi come ieri e il fatto che la vicenda si svolga sul piano continentale, su quello nazionale o persino sulla “Rete” non modifica in alcunché la questione.

Il resto è banale contingenza – ancorché rischiosa per un’Italia economicamente e culturalmente fragile – di un esito elettorale dal quale comunque prenderà origine un Governo, prima o dopo nuove elezioni, che metterà in campo politiche orientate a destra oppure a sinistra. C’è solo da augurarsi che si tratti di genuine e moderate ispirazioni ideali e non di pasticci senz’anima, magari sostenuti con sussiego da pensosi ma astratti intellettuali.

 

 

 

Aggiornato il 19 marzo 2018 alle ore 12:18