Stato-mafia: le tappe di un processo lungo 5 anni

Il processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia comincia, davanti alla Corte d’assise di Palermo presieduta da Alfredo Montalto, il 27 maggio del 2013.

Stralciata la posizione del boss Bernardo Provenzano, giudicato incapace di partecipare lucidamente alle udienze e poi deceduto, a rispondere di minaccia a Corpo politico dello Stato si ritrovano gli ex vertici del Ros dell’Arma Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, boss come Totò Riina, Antonino Cinà e Leoluca Bagarella, l’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri e il collaboratore di giustizia Giovanni Brusca. Per tutti l’accusa è minaccia a Corpo politico dello Stato. Alla sbarra anche Massimo Ciancimino, testimone chiave e al tempo stesso imputato, chiamato a rispondere di concorso in associazione mafiosa e calunnia all’ex capo della polizia Gianni De Gennaro e l’ex ministro Nicola Mancino accusato di falsa testimonianza.

Calogero Mannino, ex ministro della Dc, con gli altri rinviato a giudizio, sceglie l’abbreviato. Il processo a suo carico va più spedito e a novembre del 2015 viene assolto. L’appello è in corso.

Davanti alla corte si costituiscono parte civile il Centro studi Pio La Torre, l’ex capo della polizia, Gianni De Gennaro, la presidenza del Consiglio dei ministri, la presidenza della Regione siciliana, il Comune di Palermo, l’associazione Libera e l’associazione vittime della strage dei Georgofili. Al centro, almeno all’inizio del processo che nel tempo si è riempito di capitoli nuovi, la presunta trattativa che pezzi dello Stato, attraverso i carabinieri, avrebbero avviato con Cosa nostra negli anni delle stragi. Un dialogo fatto di concessioni carcerarie e impunità in cambio della fine del sangue e degli attentati che tra il 92 e il 93 avevano messo in ginocchio il Paese. La pubblica accusa intanto perde un pezzo importante, il pm Antonio Ingroia che lascia la toga dopo un infelice tentativo di discesa in politica. A istruire il dibattimento sono Nino Di Matteo, divenuto simbolo del pool, Roberto Tartaglia, il più giovane dei pm, Vittorio Teresi e Francesco Del Bene.

Quattro anni e 8 mesi di dibattimento, circa 220 udienze, centinaia di esami testimoniali, audizioni di politici eccellenti tra cui l’ex capo dello Stato Giorgio Napolitano, dichiarazioni spontanee, schermaglie tra le parti, rivelazioni di piani di attentati e minacce ai danni di Nino Di Matteo: la vita di quello che è stato definito il processo del secolo è lunga, complessa e densa di polemiche. C’è chi lo definisce un maldestro tentativo di riscrivere la storia del Paese, chi insorge per la qualificazione giuridica del reato contestato agli imputati. Critiche e invettive che culminano nello scontro tra l’accusa e il Colle dopo le intercettazioni delle telefonate tra Giorgio Napolitano e Nicola Mancino, finito davanti alla Consulta. Alla fine i giudici danno ragione al capo dello Stato e ordinano la distruzione dei nastri irrilevanti per l’inchiesta.

La Procura completa la requisitoria a gennaio e chiede le pene. Nel frattempo muore un altro imputato eccellente: Totò Riina. Il conto più salato l’accusa lo presenta a Mario Mori, sempre assolto nei processi a cui finora è stato sottoposto: 15 anni di carcere. Avrebbe scelto la via del dialogo con Cosa nostra. Per i colleghi del Ros Antonio Subranni e Giuseppe De Donno sono stati chiesti 12 anni ciascuno. Stessa pena invocata per Marcello Dell’Utri, ex senatore di Forza Italia ritenuto referente politico dei boss dopo l’arresto del vecchio interlocutore dei carabinieri, l’ex sindaco mafioso Vito Ciancimino. Pesantissima - 6 anni - anche la richiesta di condanna fatta per Nicola Mancino che avrebbe mentito ai giudici del processo in cui Mori era imputato di favoreggiamento alla mafia. Per Leoluca Bagarella, cognato di Riina e al suo fianco nella strategia stragista, sono stati chiesti 16 anni; 12 per Antonino Cinà, medico e fedelissimo del padrino di Corleone.

Brusca, passato tra le fila dei pentiti, si è visto chiedere la prescrizione dalle accuse. A sorpresa la prescrizione è stata invocata anche per Massimo Ciancimino, nel frattempo finito in cella per scontare condanne definitive per riciclaggio e detenzione di esplosivo. Accusato di concorso in associazione mafiosa, il suo contributo all’organizzazione si sarebbe esaurito a gennaio del 1993, quando, secondo i pm, insieme a suo padre Vito e a Bernardo Provenzano avrebbe fatto catturare Riina. Per la calunnia dell’ex capo della polizia Gianni De Gennaro, di cui era accusato per averlo accostato a un fantomatico 007 coinvolto nella trattativa, sono stati invece chiesti 5 anni. L’accusa di calunnia, però, è pure prossima alla prescrizione che potrebbe arrivare già in primo grado.

 

 

Aggiornato il 16 aprile 2018 alle ore 18:36